Una affermazione della numerologia avanzata da alcuni praticanti conclude che, dopo osservazioni empiriche e investigazioni, attraverso lo studio dei numeri l'uomo potrà scoprire aspetti segreti di sé stesso e dell'universo.

domenica 31 marzo 2013

Il numero


Il concetto di numero è fondamentale nell'uomo, anche il meno evoluto. L'idea numerica piú semplice è quella di avvertire una modificazione nella quantità di oggetti che cadono sotto i nostri sensi. Sembra che anche taluni animali, come certi uccelli in rapporto alla quantità delle uova, abbiano un vago concetto di numero come quantità, qualora questa venga cambiata. Ma esclusiva dell'uomo è la facoltà di contare. Il primo metodo di conteggio si è basato certamente sugli arti, specialmente le mani; cosí si è arrivati al dieci, base del sistema decimale. Se l'uomo avesse avuto sei dita per mano certamente avrebbe prevalso la numerazione duodecimale che, tra parentesi, sarebbe stata assai piú comoda. La numerazione duodecimale è rimasta nel concetto di dozzina. Taluni popoli, ad esempio gli Esquimesi, si direbbe abbiano introdotto nel conteggio anche le dita dei piedi, arrivando cosí ad una numerazione vigesimale. Traccia di tale numerazione è rimasta anche nel francese. Ciò che dà un'inutile complicazione nell'espressione di un numero; ad esempio 92 in francese implica una moltiplicazione ed una somma: esso è difatti quatrevingtdouze, cioè: 4×20+12. Quando fu scoperta e introdotta la scrittura, i numeri, che prima erano indicati con semplici segni, vennero poi identificati con lettere alfabetiche; cosí, è ben noto, fecero ad esempio i Romani. Anzi la numerazione romana perdurò sino al secolo XV, benché, già poco dopo il 1200, il mercante pisano Fibonacci, che fu anche valente matematico, avesse portato dall'Oriente la numerazione indiana, impropriamente detta araba. La scienza del numero difatti, nata forse in Grecia, passò in India e dall'India agli arabi. Questi ebbero anzi grandi matematici e diedero il nome all'algebra, parola la cui derivazione dall'arabo (art. al) è chiarissima. Fu questa numerazione che diede modo di sviluppare in modo straordinario specialmente l'aritmetica. Infatti coi numeri letterali romani perfino le operazioni fondamentali erano di una difficoltà enorme. È noto un aneddoto relativo ad un mercante olandese del Medio Evo, che voleva far studiare il figlio, e che chiese consiglio ai dotti del tempo.
«Se volete che vostro figlio impari l'addizione e la sottrazione — gli fu risposto — potete mandarlo in un'Università germanica; ma se pretendete che sappia fare anche la moltiplicazione e la divisione occorre che lo mandiate in un'Università italiana».
Dal quale aneddoto risulta non solo la stima di cui, nel Medio Evo, godevano le Università italiane, ma anche la grande difficoltà che presentavano le due ultime operazioni, che oggi i nostri bimbi eseguiscono nelle prime classi elementari
Nell'antichità dunque l'aritmetica, per noi assai facile, era una scienza alta ed astrusa, tanto che rimase riservata solo ad alcuni ingegni superiori ed in modo speciale alla casta sacerdotale. Nell'India, che forse fu erede della scienza aritmetica italo-greca, detenevano i misteri del numero i sacerdoti birmani. Vedremo presto che lo stesso era avvenuto in Egitto.
Retaggio dunque spesso esclusivo del sacerdozio, il numero assunse quindi, sino dall'inizio, un significato sacro, divino; ed al numero ed ai suoi simboli venne cosí dato un contenuto mistico.
Come si è accennato, i cosiddetti numeri arabi, la cui introduzione in Europa si deve al Fibonacci, tardarono molto ad essere adottati dal pubblico. Ed anche per questo sistema di numerazione perdurò il mistero. Il sistema aritmetico moderno, detto di posizione, si originò per la scoperta, forse di un ignoto indiano, che rese facili tutte le operazioni introducendo il simbolo dello zero. Fu questa una delle piú grandi scoperte dell'umanità. Lo zero, che ha vari significati in aritmetica, pel pubblico grosso sta a rappresentare il nulla. E invece non è affatto cosí. Lo zero fu destinato, all'inizio, a segnare un vuoto. Era cioè il segno che indica come sul pallottoliere (uno dei piú antichi strumenti di calcolo, usato però anche oggi dai popoli orientali) una determinata fila era vuota. Facciamo un esempio. Se su di un pallottoliere risultavano su cinque file le cifre 8, 3, 5, non si sapeva come scriverle, in modo da dare un concetto della loro posizione. Poteva aversi 83005, oppure 80305 o anche 80035. L'indicazione, mediante una linea o un circoletto delle file vuote del pallottoliere, segnava la posizione in esso delle varie cifre, e quindi il valore diverso del numero ottenuto. Nacque cosí l'aritmetica detta appunto di posizione, per merito della quale le operazioni, che colle lettere numeriche risultavano complicatissime, si resero alla portata di tutti.
Questo zero portò, come si è detto, la rivoluzione nell'aritmetica e cosí apparve come qualcosa di miracoloso. Da questo concetto mistico si ebbero una quantità di espressioni rimaste nel linguaggio, e che appunto accennano ad un che di segreto, di misterioso. Gli arabi chiamarono lo zero siphr, che nel latino divenne zephr (da cui zero); per altre lingue “siphr” divenne invece “cifra”. Che poi il nuovo sistema di numerazione, che facilitava le operazioni aritmetiche, fosse qualcosa di misterioso si rileva dalle locuzioni derivate da siphr, cioè: in cifra, decifrare ecc., le quali tutte indicano qualcosa di segreto. E questo tanto piú che, come si è visto, la numerazione araba fu ostacolata dai misoneisti, dai tradizionalisti e perfino proibita dalla Chiesa. Fu in un Consiglio di Cardinali del 1299 che venne espressamente proibito l'uso delle cifre arabe. Anche l'Arte maggiore dei commercianti di Calimala nello stesso anno emise un analogo provvedimento. Ma è certo che molti mercanti usavano il nuovo sistema in segreto. Queste proibizioni contribuirono ad aumentare il misterioso nel numero. Dante, tradizionalista come tutti i sapienti del suo secolo, benché già da tempo taluni seguissero la nuova numerazione, forse la ignorava; certo non ne tenne mai conto, mantenendosi costantemente fedele alla numerazione romana.
Pitagora e i pitagorici
Una delle piú alte manifestazioni filosofico-scientifiche si affermava, seicento anni prima di Cristo, a Crotone per merito di Pitagora. Si impose difatti allora la filosofia del numero-idea, vanto della solare, armonica civiltà mediterranea, italica. Non si trattava pei pitagorici di reconditi e cervellotici significati cabalistici. Fu gloria di Pitagora di fare assurgere quasi a religione il numero.
Pitagora, il filosofo scienziato un po' mitico, che i suoi seguaci considerarono un semidio, è celebre per sé e piú che altro per la sua scuola, che continuò a lungo dopo la sua morte; e che fu mistica, iniziatica, retta dal giuramento della sacra tetractis, la quaternità. I pitagorici adoravano difatti questa divina tetrade, costituita da 1, 2, 3, 4, la cui somma dava 10. Riporto dal Dantzig la preghiera dei pitagorici alla Tetractis:
«Benedici a noi, o numero divino, tu da cui derivano gli dei e gli uomini. O santa, santa Tetrade, tu che contieni la radice, la sorgente dell'eterno flusso della creazione. Il numero divino si inizia coll'unità pura e profonda, e raggiunge il quattro sacro; poi produce la matrice di tutto, quella che tutto comprende, che tutto collega; il primo nato, quello che giammai devia, che non affatica, il sacro dieci, che ha in sé la chiave di tutte le cose».
Oltre alle speculazioni filosofiche sul numero si deve ai pitagorici la fondazione del metodo sperimentale, duemila anni prima di Galileo; e inoltre il concetto di fisica-matematica, l'idea di infinitesimo, il teorema detto appunto di Pitagora, e, nella teoria delle proporzioni, la sezione aurea, base dell'architettura e delle arti figurative sino a Leonardo almeno. Non certo oggi. È un pitagorico, Parmenide, che dimostrò sferica la Terra. E un altro pitagorico, Filolao, insegna che la Terra non è al centro dell'Universo. Aristarco nel 300 a.C. lo segue. Ma questa esatta opinione dei grandi pitagorici viene sommersa dalla dottrina geocentrica di Tolomeo. Occorreranno i genî di Copernico e di Galileo per farla rivivere.
Pitagora fu dunque uno scienziato pei suoi tempi veramente sommo, ma fu anche il filosofo che applicò il numero all'Universo. Il numero nel pitagorismo non è una quantità astratta ma una virtú intrinseca ed attiva dell'Uno Supremo, Dio, sorgente dell'armonia universale. Il numero pei pitagorici era perciò l'essenza delle cose, poiché il numero è dovunque. L'Universo esiste in grazia del numero; il Cosmos (nome proposto da Pitagora) non solo è ordine  matematico ma è altresí bellezza, armonia, poiché armonia e ordine sono inseparabili.
La scuola pitagorica ha portato l'armonia dei suoni anche nei cieli. I pianeti distano, pei pitagorici, dello stesso intervallo proporzionale, che la scuola pitagorica aveva dimostrato sperimentalmente esistere tra le note musicali. Le sfere celesti perciò risuonavano di una perfetta armonia. E all'idea pitagorica accede Dante, il quale appena iniziata la sua salita ai cieli resta attonito non solo per l'enorme luce ma anche per la magica armonia musicale dovuta a Colui che tutto muove. E per tutto il Paradiso si avrà sempre luce, canto, suono, armonia fuori dell'umano.
Pitagora non lasciò alcun trattato: difatti la sua scuola si basava solo sull'insegnamento orale agli iniziati. Fu primo Filolao, discepolo di Pitagora, che coi suoi scritti svelò una parte almeno degli insegnamenti del maestro. Filolao afferma che armonia e numero non sopportano né comportano errori. Si deve a Filolao il concetto di concordia discors, avendo egli asserito che l'armonia è l'unità del multiplo, è l'accordo del discordante, il nostro contrappunto musicale. Lo stesso autore scrive che «tutte le cose che sono a nostra conoscenza hanno un numero; poiché è impossibile che qualsiasi cosa possa esser conosciuta o immaginata senza numero».
Pei pitagorici ogni cosa fisica è decadica, poiché, come dice Teone Smirneo, la decade racchiude in sé pasan füsin; ogni proprietà ed essenza fisica. Ne riparleremo. E Temisto asserisce che i dieci numeri erano eideitikoi, formativi. Secondo Porfirio poi era dovere dell'uomo di combattere sempre l'ametrion, la mancanza di simmetrie nelle cose.
La scuola pitagorica ha pure un altro vanto: quello di avere identificato aritmetica e geometria eguagliando l'unità, origine di tutti i numeri, al punto, origine di tutte le figure. Da ciò l'importanza dei primi quattro numeri e corrispondenti punti, per cui si potevano costruire tutte le figure, e la cui somma dava il perfetto dieci.I pitagorici, che avevano trovato sperimentalmente il rapporto dei suoni, trovarono pure che le figure geometriche soggette al tatto ed alla vista erano perfezione di numero. Circolo, sfera e figure poligonali regolari, tutte costruibili con squadra e compasso, erano gli elementi con cui il Dio Supremo aveva costruito armonicamente l'Universo .



Fonte: Il giardino delle esperidi

Santo del giorno 31marzo

SAN BENIAMINO



Etimologia: Beniamino = figlio prediletto, dall'ebraico
Martirologio Romano: In località Argol in Persia, san Beniamino, diacono, che non desistette dal predicare la parola di Dio e, sotto il regno di Vararane V, subì il martirio con delle canne acuminate conficcate nelle unghie.

S. Beniamino diacono di Ergol in Persia, fa parte di un gruppo di martiri, uccisi appunto in Persia durante la lunga persecuzione contro i cristiani, che iniziò sotto il regno di Iezdegerd I e finì con quello del successore Bahram-Gor.
Vi sono varie versioni che riguardano questa feroce persecuzione, discordanti fra loro, in buona parte prese dai sinassari bizantini; anche le notizie riguardanti i nomi dei martiri, la data ed il luogo del martirio sono imprecise e discordanti.
L’episodio avvenuto all’interno della lunga persecuzione contro i cristiani in Persia, racconta che verso il 420, lo sfrenato zelo di alcuni cristiani, capeggiati da un sacerdote Hasu, portò ad incendiare ad Ergol (Argul) un pireo, cioè un tempio dedicato al culto del fuoco.
Per questa distruzione venne arrestato il vescovo Abdas, il fratello Papa, i preti Hasu e Isacco, il segretario Ephrem, il suddiacono Papa, i laici Daduq e Durtan; al vescovo Abdas fu ingiunto dalle autorità civili di ricostruire il tempio, poiché egli si rifiutò, furono condannati a morte.
A loro sono associati nella celebrazione altri martiri di quella persecuzione, scaturita dall’episodio dell’incendio del ‘pireo’ e sono Ormisda (Manides), Sahin e il diacono di Ergol, Beniamino.
Su quest’ultimo, il ‘Martyrologium Romanum’ commemorandolo al 31 marzo, riporta la seguente citazione: “In Ergol (Argul) in Persia, san Beniamino diacono, che non desistette dal predicare le Verità della fede, sotto Bahrom-Gor re; consumò il suo martirio venendogli conficcati negli orifizi e sotto le unghie legni sottili ed acuminati”.
Il martirio avvenne verso il 420 cioè nei primi due anni del regno di Bahrom-Gor, perché nel 422 egli fu vinto da Teodosio II, che come condizione di pace pose la libertà di culto ai cristiani di Persia.


 

sabato 30 marzo 2013

Santo del giorno 30 marzo

San Zosimo di Siracusa Vescovo

Esercitava un'umile funzione nel monastero di Santa Lucia, a Siracusa, perchè considerato incapace di qualsiasi incombenza importante. Quando morì l'abate, il Vescovo, sorprendentemente, lo designò per la carica. Governò con tanta saggezza e virtù che finì per essere eletto Vescovo della città.
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Siracusa, san Zosimo, vescovo, che fu dapprima umile custode della tomba di santa Lucia, poi abate del monastero del luogo.



Zosimo, vescovo (VII secolo) era un giovane monaco cui era stata affidata per la sua inettitudine la custodia della tomba di Santa Lucia a Siracusa. Un giorno, desideroso di rivedere i genitori, lasciò il monastero senza avvertire i superiori. I genitori, vedendolo arrivare con aria di fuggitivo, lo rimproverarono e lo riaccompagnarono al monastero. Venne perdonato dall'abate e riconsegnato al suo compito di "guardiano della tomba", che tenne a lungo perché considerato incapace di altre e più impegnative mansioni.
Alla morte dell'abate, i monaci si recarono dal vescovo per conoscere il nome del successore. Fra loro non c'era Zosimo, rimasto a casa come "inutile". Quando il vescovo ebbe davanti i monaci, chiese: "Ci siete tutti?". "No, - risposero - a casa c'è il guardiano della tomba di santa Lucia, ma è di poco conto". "Fatelo venire" ingiunse il vescovo. E quando Zosimo arrivò: "Ecco il vostro abate" affermò solennemente il vescovo.
Così Zosimo, tra la sorpresa di tutti, divenne abate del monastero dimostrando presto di quanta saggezza e virtù fosse ricco, a tal punto che il popolo lo volle quale proprio vescovo. Confermato da papa Teodoro, egli rimase sulla cattedra episcopale siracusana dal 647 al 662 guidando la diocesi con bontà e saggezza. 

 

venerdì 29 marzo 2013

Santo del giorno 29 marzo

Beata Agnese di Chatillon Monaca



Agnese visse nel monastero cistercense di Beaupré attorno al 1600. La sua vita è tutta ispirata alla Gloria di Dio e ad un ideale di alta perfezione.Si distinse particolarmente per l’amore all’Eucaristia e la meditazione della Passione di Gesù. Fu vista sovente rapita in estasi, specie dopo la comunione. E’ ricordata al 29 marzo presso l’Ordine Benedettino e al 28 marzo presso i Cistercensi. Dopo la sua morte si ottennero molti prodigi per sua intercessione.

Etimologia: Agnese = pura, casta, dal greco

Monaca cistercense del monastero di Beaupré attorno al 1600. La sua giornata fu tutta intesa alla meditazione della Passione e ispirata a un ideale di suprema perfezione; ogni sua parola fu volta alla gloria di Dio. Andava spesso in estasi, specie dopo la Comunione. Dopo la sua morte si ebbero rilevanti prodigi.




Nei martirologi cistercensi, in quello di Bucelino, e nell'Auctarium ad Molanum di A. Du Raisse (che contiene un breve estratto dagli atti mss. di Beaupré) è ricordata ii 28 marzo. Nell'Ordine Benedettino la memoria è al 29 marzo.



Autore: Alfonso M. Zimmermann 

Fonte: http://www.santiebeati.it 

 

Venerdì Santo

Strutturata come una liturgia della Parola, la celebrazione della Passione del Signore ruota attorno al concetto giovanneo di esaltazione: mentre il Figlio muore ucciso, egli riceve gloria dal Padre. La sua morte è la proclamazione della vittoria di Dio sul male e sulla morte come si evince dalla lunga contemplazione di Isaia sulle sofferenze del Servo del Signore che, dopo i dolori e le angosce, «vedrà la luce» (53,11). Su questa radice così forte si innesta la solenne preghiera universale dove l’assemblea intercede per la salvezza di tutto il mondo associandosi così alla grande intercessione di Cristo morente sulla croce: nessun uomo è solo, ma è unito all’amore di Cristo che ha dato la vita per noi. Ciò che si celebra nella Parola salvifica e nell’intercessione fiduciosa si contempla nella fede attraverso il rito dell’ostensione e dell’adorazione della croce. Nel segno glorioso di Cristo innalzato, non si indulge a toni doloristici o funebri, ma si celebra la gloria della sua passione d’amore. Lo strumento della vergogna ora è portato solennemente, svelato e mostrato: è icona gloriosa della nostra vittoria e della nostra speranza. Per antichissima tradizione in questo giorno non si celebra l’Eucaristia nell’attesa di celebrarla nella notte sacramentale per eccellenza, la notte della risurrezione. Tuttavia, è prevista la comunione eucaristica: possibilità offerta a tutti per unire la propria vita al sacrificio di Cristo. · «In questo giorno in cui “Cristo è stato immolato”, la Chiesa con la meditazione della passione del suo Signore e sposo e con l’adorazione della croce commemora la sua origine dal fianco di Cristo, che riposa sulla croce, e intercede per la salvezza di tutto il mondo». (Preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 58) Mentre l’assemblea radunata ascolta il testo profetico di Isaia (52,13 - 53,12) sul Servo del Signore trafitto per le nostre iniquità, la meditazione della lettera agli Ebrei (4,14-16; 5,7-9) sull’obbedienza di Cristo nella sua sofferenza e il racconto giovanneo della Passione non si limita a garantire la continuità tra “questo” e “quel” Venerdì santo, ma nell’ottica della fede riconosce nella morte cruenta di Cristo la sua origine e adorando il legno della croce riconosce i frutti di salvezza che scaturiscono da quell’albero di vita. Tale consapevolezza deve poter emergere nella prassi celebrativa con alcune attenzioni concrete. - La proclamazione della Parola di Dio sia veramente “liturgica” attraverso la scelta di ministri preparati nella lettura dei testi biblici e nei canti previsti. Dove ciò è possibile, non si accantoni la possibilità dell’esecuzione in canto del testo della Passione dandogli così il giusto peso celebrativo. L’omelia, per quanto breve, non venga omessa e contribuisca a irrobustire la fede dei credenti nel dono d’amore di Dio in Cristo. - L’ostensione e l’adorazione della croce sia svolta «con lo splendore di dignità che conviene a tale mistero della nostra salvezza» (Preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 68). Dopo l’ascolto e la supplica, la fede della Chiesa prende la forma del gesto adorante: la contemplazione con lo sguardo, l’acclamazione corale, la prostrazione nel silenzio più eloquente di ogni parola e, infine, la partecipazione di tutti attraverso il bacio o un altro gesto di intima venerazione e il canto. In una sequenza rituale, sobria e solenne ad un tempo, il corpo è protagonista dell’adorazione, le emozioni trovano il loro posto e, soprattutto nell’offerta testuale del Messale, la fede ecclesiale si esprime con accenti lirici di vera bellezza e profondità: «Adoriamo la tua croce, Signore, lodiamo la tua risurrezione. Dal legno della croce è venuta la gioia in tutto il mondo».

giovedì 28 marzo 2013

Il giorno del Giovedì Santo

E' riservato a due distinte celebrazioni liturgiche, al mattino nelle Cattedrali, il vescovo con solenne cerimonia consacra il Sacro Crisma, mentre nel tardo pomeriggio c’è la celebrazione della Messa in “Cena Domini”, cioè la ‘Cena del Signore’.

Il giorno è riservato a due distinte celebrazioni liturgiche, al mattino nelle Cattedrali, il vescovo con solenne cerimonia consacra il Sacro Crisma, mentre nel tardo pomeriggio c’è la celebrazione della Messa in “Cena Domini”, cioè la ‘Cena del Signore’.  

Del Giovedì Santo è riservato a due distinte celebrazioni liturgiche, al mattino nelle Cattedrali, il vescovo con solenne cerimonia consacra il Sacro Crisma.
Battesimo, Cresima e Ordine Sacro e gli altri tre oli usati per il Battesimo, Unzione degli Infermi e per ungere i Catecumeni.
A tale cerimonia partecipano i sacerdoti e i diaconi, che si radunano attorno al loro vescovo, quale visibile conferma della Chiesa e del sacerdozio fondato da Cristo; accingendosi a partecipare poi nelle singole chiese e parrocchie, con la liturgia propria, alla celebrazione delle ultime fasi della vita di Gesù con la Passione, morte e Resurrezione. 

Nel tardo pomeriggio c’è la celebrazione della Messa in “Cena Domini”, cioè la ‘Cena del Signore’. Non è una cena qualsiasi, è l’Ultima Cena che Gesù tenne insieme ai suoi Apostoli, importantissima per le sue parole e per gli atti scaturiti; tutti e quattro i Vangeli riferiscono che Gesù, avvicinandosi la festa degli ‘Azzimi’, chiamata Pasqua ebraica, mandò alcuni discepoli a preparare la tavola per la rituale cena, in casa di un loro seguace.
La Pasqua è la più solenne festa ebraica e viene celebrata con un preciso rituale, che rievoca le meraviglie compiute da Dio nella liberazione degli Ebrei dalla schiavitù egiziana (Esodo 12); e la sua celebrazione si protrae dal 14 al 21 del mese di Nisan (marzo-aprile).
In quella notte si consuma l’agnello, precedentemente sgozzato, durante un pasto (la ‘cena pasquale’) di cui è stabilito ogni gesto; in tale periodo è permesso mangiare solo pane senza lievito (in greco, azymos), da cui il termine ‘Azzimi’. 

Gesù con gli Apostoli non mangiarono solo secondo le tradizioni, ma il Maestro per l’ultima volta aveva con sé tutti i dodici discepoli da lui scelti e a loro parlò molto, con parole che erano di commiato, di profezia, di direttiva, di promessa, di consacrazione.
Il Vangelo di Giovanni, il più giovane degli Apostoli, racconta che avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine, e mentre il diavolo già aveva messo nel cuore di Giuda Iscariota, il seme del tradimento, Gesù si alzò da tavola, depose le vesti e preso un asciugatoio se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino e con un gesto inaudito, perché riservato agli schiavi ed ai servi, si mise a lavare i piedi degli Apostoli, asciugandoli poi con l’asciugatoio di cui era cinto.
Si ricorda che a quell’epoca si camminava a piedi su strade polverose e fangose, magari sporche di escrementi di animali, che rendevano i piedi, calzati da soli sandali, in condizioni immaginabili a fine giornata. La lavanda dei piedi era una caratteristica dell’ospitalità nel mondo antico, era un dovere dello schiavo verso il padrone, della moglie verso il marito, del figlio verso il padre e veniva effettuata con un catino apposito e con un “lention” (asciugatoio) che alla fine era divenuto una specie di divisa di chi serviva a tavola. 

Quando fu il turno di Simon Pietro, questi si oppose al gesto di Gesù: “Signore tu lavi i piedi a me?” e Gesù rispose: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”; allora Pietro che non comprendeva il simbolismo e l’esempio di tale atto, insisté: “Non mi laverai mai i piedi”. Allora Gesù rispose di nuovo: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” e allora Pietro con la sua solita impulsività rispose: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”.
Questa lavanda è una delle più grandi lezioni che Gesù dà ai suoi discepoli, perché dovranno seguirlo sulla via della generosità totale nel donarsi, non solo verso le abituali figure, fino allora preminenti del padrone, del marito, del padre, ma anche verso tutti i fratelli nell’umanità, anche se considerati inferiori nei propri confronti.
Dopo la lavanda Gesù si rivestì e tornò a sedere fra i dodici apostoli e instaurò con loro un colloquio di alta suggestione, accennando varie volte al tradimento che avverrà da parte di uno di loro, facendo scendere un velo di tristezza e incredulità in quel rituale convivio.
“In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”, gli Apostoli erano sgomenti e in varie tonalità gli domandarono chi fosse, lo stesso Giovanni il discepolo prediletto, poggiandosi con il capo sul suo petto, in un gesto di confidenza, domandò: “Signore, chi è?”. E Gesù commosso rispose: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò” e intinto un boccone lo porse a Giuda Iscariota, dicendogli: “quello che devi fare, fallo al più presto”; fra lo stupore dei presenti che continuarono a non capire, mentre Giuda, preso il boccone si alzò, ed uscì nell’oscurità della notte. 

Questa scena del Cenacolo è stata in tutti i secoli soggetto privilegiato di tanti artisti, che l’hanno efficacemente raffigurata, generalmente con Gesù al centro e gli Apostoli seduti divisi ai due lati, con Giovanni appoggiato col capo sul petto e con il solo Giuda seduto al di là del tavolo, di fronte a Gesù, che intinge il pane nello stesso piatto. L’atteggiamento di Gesù e degli Apostoli è sacerdotale, ma con i volti che tradiscono il dramma che si sta vivendo.
Dopo l’uscita di Giuda, il quale pur ricevendo con il gesto cordiale e affettuoso il boccone intinto nel piatto, che in Oriente era segno di grande distinzione, non seppe capire, ormai in preda all’opera del demonio, l’ultimo richiamo che il Maestro gli faceva, facendogli comprendere che lui sapeva del tradimento ordito d’accordo con i sacerdoti e del compenso pattuito dei trenta denari; Gesù rimasto con gli undici discepoli riprese a colloquiare con loro.
I discorsi che fece, nel Vangelo di S. Giovanni, occupano i capitoli dal 13 al 17, con argomenti distinti ed articolati, dagli studiosi definiti ad ‘ondate’ perché essi sono ripresi più volte e in forme sempre nuove; ne accenneremo i più importanti.
“Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.
E a Pietro che insisteva di volerlo seguire, assicurandogli che era disposto a dare la sua vita per lui, Gesù rispose: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non mi abbia rinnegato tre volte”. 

Il discorso di Gesù prosegue con una promessa “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Io vado a prepararvi un posto; ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Il concetto del ‘posto’ o della casa che ci aspetta, risente dell’antica concezione che si aveva dell’aldilà, come una abitazione dove i defunti prendevano posto. Così nell’Apocalisse, il cielo era immaginato come una casa al cui centro stava il trono di Dio, circondato dalla corte celeste e dalle dimore dei giusti e dei santi. Anche nei testi rabbinici si legge che le anime saranno introdotte nell’aldilà, in sette dimore distinte per i giusti e sette per gli empi.
A Tommaso che gli chiede: “Se non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”, Gesù risponde con un’altra grande rivelazione: “Io sono la Via, la Verità, la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. E a Filippo che chiede di mostrare loro il Padre, Gesù ribadisce la profonda unità e intimità fra lui e Dio Padre.
Le sue parole e le sue opere di salvezza sono animate e sostenute dal Padre, che parla e opera nel Figlio. A questo punto Gesù, per la prima delle cinque volte che pronuncierà nei suoi discorsi di quella sera, nomina il ‘Consolatore’ traduzione del termine greco “paraklitos” (Paraclito), che solo nel Vangelo di Giovanni designa lo Spirito Santo; cioè il dono dello Spirito che sostiene nella lotta contro il male e che rivela la volontà divina; riservato ai credenti e che continuerà l’opera di Gesù dopo la sua Risurrezione.
“Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto. Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non come la dà il mondo, io la dò. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi…”. 

I Vangeli di Matteo, Marco e Luca dicono poi che “Gesù mentre mangiava con loro, prese il pane e pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo distribuì agli apostoli dicendo: “Prendete questo è il mio corpo”, poi prese il calice con il vino, rese grazie, lo diede loro dicendo: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti”.
Gesto strano, inusuale, forse non subito capito dagli Apostoli, ma che conteneva il dono più prezioso che avesse potuto fare all’umanità: sé stesso nel Sacramento dell’Eucaristia e con il completamento della frase: “fate questo in memoria di me”, riportata da Luca 22,19, egli istituiva il sacerdozio cristiano, che perpetuerà nei secoli futuri il sacrificio cruento di Gesù, nel sacrificio incruento celebrato ogni giorno ed in ogni angolo della Terra, con la celebrazione della Messa.
Inoltre rivolto a Pietro, ancora una volta lo indica come capo della futura Chiesa e primo fra gli Apostoli: “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano, ma io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede; e tu una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”, cioè di essere da sostegno agli altri nella fede; con ciò Gesù è sempre con lo sguardo rivolto oltre la sua morte e delinea il futuro della Chiesa. 

Nel prosieguo del suo discorso, Gesù ammaestra gli Apostoli con altra similitudine, quella della vite e dei tralci: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto…. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neppure voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla…”.
Poi preannuncia le persecuzioni e le sofferenze che saranno loro inflitte per causa sua: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me… Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono Colui che mi ha mandato”. “ Vi scacceranno dalle sinagoghe, anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà, crederà di rendere culto a Dio”.
Infine dopo altre frasi di consolazione e rassicurazione dell’aiuto del Padre attraverso di Lui, Gesù conclude la lunga cena, con quella che nel capitolo 17 del Vangelo di S. Giovanni, è stata chiamata da s. Cirillo di Alessandria “la preghiera sacerdotale”, vertice del testamento spirituale, racchiuso nei ‘discorsi d’addio’ fatti quella sera.
È una bellissima invocazione al Padre per raccomandargli quegli uomini, capostipiti di una nuova Chiesa, che hanno creduto in lui, tranne uno, perché veramente Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, e lo hanno seguito lungo quegli anni, assimilato i suoi insegnamenti, disposti con l’aiuto dello Spirito, a proseguire il suo messaggio di salvezza. 

Ecco perché la Chiesa celebra oltre l’Istituzione dell’Eucaristia, anche l’Istituzione dell’Ordine Sacro; è la “festa del sacerdozio cristiano” e della fondazione della Chiesa.
Per concludere queste note sul Giovedì Santo, ricordiamo che Gesù dopo la cena, si ritirò nell’Orto degli Ulivi, luogo abituale delle sue preghiere a Gerusalemme, in compagnia degli Apostoli, i quali però stanchi della giornata, delle forti emozioni, della cena, dell’ora tarda, si addormentarono; più volte furono svegliati da Gesù, che interrompeva la sua preghiera: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”; “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole”; “Basta, è venuta l’ora: ecco il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori: alzatevi e andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino”.
Era cominciata la ‘Passione’ che la Chiesa ricorda il Venerdì Santo; i riti liturgici del Giovedì Santo si concludono con la reposizione dell’Eucaristia in un cappella laterale delle chiese, addobbata a festa per ricordare l’Istituzione del Sacramento; cappella che sarà meta di devozione e adorazione, per la rimanente sera e per tutto il giorno dopo, finché non iniziano i riti del pomeriggio del Venerdì Santo.
Tutto il resto del tempio viene oscurato, in segno di dolore perché è iniziata la Passione di Gesù; le campane tacciono, l’altare diventa disadorno, il tabernacolo vuoto con la porticina aperta, i Crocifissi coperti. 

Nella devozione popolare dei miei tempi di ragazzo, le madri raccomandavano ai figli di non giocare, di non correre o saltare, perché Gesù stava a terra nel “sepolcro”, nome erroneamente scaturito al tempo del Barocco e indicante l’”altare della reposizione”, dove è posta in adorazione l’Eucaristia.

Autore:
Antonio Borrelli


Fonte: http://www.santiebeati.it/dettaglio/20256 
ma, mentre nel tardo pomeriggio c’è la celebrazione della Messa in “Cena Domini”, cioè la ‘Cena del Signore’.

Santo del giorno 28 marzo

Santo Stefano Harding

 

Sherborne (Inghilterra), 1060 – Citeaux (Francia), 28 Marzo 1134. Insieme a San Roberto di Molesme, Santo Stefano Harding fu il fondatore del celebre monastero di Citeaux, che poi diede il nome all’ordine dei cistercensi. Fu proprio Stefano, terzo abate di Citeaux, che accolse il famoso San Bernardo, che nel 1135 andrà a fondare il monastero di Chiaravalle. Stefano nasce nel 1060, da una famiglia nobile di Sherborne, nella contea del Dorset, nell’Inghilterra meridionale; ebbe una gioventù piuttosto agitata. Molto giovane entrò nell’abbazia benedettina di Sherborne, dove fece la professione religiosa, ma durante la conquista normanna abbandonò l’abbazia per andare in Scozia, successivamente si spostò a Parigi e poi a Roma, dove andò a chiedere perdono per la sua rinuncia a Sherborne. Sulla strada del ritorno si fermò nell’abbazia cluniacense di Molesme, in Borgogna, rimase affascinato dalla vita della comunità e volle rimanerci come monaco. ...

... Con il passare degli anni, il monastero riscosse un grande successo, ma perse il suo spirito di povertà e si crearono delle frizioni tra i monaci. San Roberto, insieme ad alcuni fedeli, tra cui Santo Stefano Harding, decise di lasciare il monastero e con il permesso dell’Arcivescovo di Lione si trasferì a Citeaux, nei pressi di Dijon, dove nel 1098 fondò il nuovo monastero.

Ma l’abbandono di San Roberto screditò l’ordine cluniacense, che chiesa a gran voce il suo ritorno; si scomodò anche il Papa e Roberto non potè fare a meno di obbedire. Fu eletto abate del monastero di Citeaux, Alberico, che governò fino al 1109, quando gli succedette Santo Stefano Harding.



Stefano fu il grande riformatore del monastero e organizzatore delle linee guida del nuovo Ordine Cistercense, compose la “Charta Caritatis” nel 1119, quella carta fu il vero e proprio statuto cistercense. Consolidò l’idea di Roberto di Molesme, fedele all’ideale benedettino, facendo del lavoro delle proprie mani il sostentamento del monastero.

Impose una semplice veste bianca ai monaci, in onore della Beata Vergine Maria e fece della semplicità delle Chiese, dei monasteri, delle celle una caratteristica dell’Ordine Cistercense.

Nel 1112 al monastero di Citeaux, durante il governo di Stefano, si presentarono una trentina di uomini per prendere l’abito cistercense, tra loro c’era il futuro Santo, Bernardo di Chiaravalle.

Questa iniezione vitale salvò il monastero, destinato a morire per mancanza di nuovi discepoli. Ben presto molti nuovi figli sarebbero diventati monaci cistercensi e tra il 1112 e il 1115 si fondarono quattro nuovi monasteri a Pontigny, Clairvaux, con Abate Bernardo, Chalon sur Saone e Morimond. In questo momento i monaci cistercensi raggiunsero la fama in tutta Europa, anche grazie a San Bernardo e alla sua forte personalità, che con il tempo oscurerà, ingiustamente, l’opera di Santo Stefano Harding.

L’abate Stefano, continuò nell’organizzazione dell’Ordine e stabilì delle regole per i quattro nuovi monasteri, dipendenti comunque dall’abbazia madre di Citeaux e organizzando dei capitoli annuali, da celebrarsi in Settembre.

Questa saggia costituzione fu approvata da Papa Callisto II il 23 Dicembre del 1119, confermando la nascita dell’Ordine Cistercense; nel 1215, durante il IV Concilio Lateranense, questa costituzione fu proposta come modello a tutti gli Ordini religiosi.

Nel 1115, poi l’abate Stefano dette gli statuti cistercensi ad un gruppo di monache presso Dijon, fondando l’abbazia di Notre Dame di Tart, affiliando il nuovo monastero femminile all’abbazia madre di Citeaux. Fu il primo monastero cistercense femminile, molti altri ne nasceranno a breve. In quegli anni Stefano redasse la prima storia cistercense, ad uso dei monaci.

Durante tutto il suo governo mantenne stretti rapporti anche con i Pontefici dell’epoca; stanco e ammalato si dimise nel 1133 e morì il 28 Marzo del 1134, alla sua morte l’Ordine Cistercense contava su settanta monasteri diffusi in tutta Europa. Fu sepolto nella Chiesa di Citeaux, accanto al suo predecessore Alberico; a partire dal 1491 il nome di Santo Stefano Harding entrò nel Compendio dei Santi dell’Ordine Cistercense.


[Fonte: Santiebeati.it]

Cos’è la magia?

 Ne parliamo molto spesso, ma chi sa veramente utilizzando questo termine a cosa ci riferiamo?
La magia è l’arte di manipolare la realtà, qualcuno sostiene venga fatto con poteri soprannaturali, altri attraverso la profonda conoscenza delle leggi naturali che vengono piegate al proprio servizio.
Il termine "magia" deriva dal persiano antico.
La magia presuppone l'esistenza di forze nascoste nella natura che maghi, saggi e iniziati sarebbero in grado di controllare e utilizzare. Secondo le teorie magiche l'uomo è parte di un sistema universale determinato da fattori interdipendenti e, in quanto essere razionale e sensibile, è in grado di esercitare la magia, a patto però che sappia come procedere.
Nel Rinascimento (XV e XVI sec.) i maghi erano membri stimati della società, dalla quale venivano considerati alla stregua degli intellettuali.
I maghi erano istruiti: conoscevano le lingue e le teorie antiche e avevano dimestichezza con la simbologia nascosta nei simboli e nei numeri; si intendevano di astrologia e di alchimia, l'antica scienza che studiava, tra l'altro, le relazioni fra le sostanze esistenti in natura, e sapevano utilizzare piante officinali ed erbe dalle proprietà magiche.


 Spesso la magia è stata praticata però in segreto, al riparo dal resto della comunità che non crede sia possibile ottenere risultati. I maghi moderni si muovono su due diversi concetti. Lo scopo primario del mago sembra essere quello di una crescita personale  che porta ad una maggior armonia con l’universo.

Riassumendo:

1) la magia è l’arte di modificare la realtà attorno a noi;

2) il mago deve essere un profondo conoscitore di se stesso;

3) il mago deve essere un profondo conoscitore della natura e delle sue leggi;

4) il segreto della magia sta nella forza di volontà.

C’è da fare una differenza tra stregoneria e magia, anche l’etimologia fa capire che nessuna delle due era negativa, almeno non inizialmente. La parola magia deriva dall’antico greco ed era utilizzata in relazione ai sacerdoti e astrologi zoroastristi. Le prime maledizioni alla magia le fece Eraclito nel VI secolo a.C.
La parola stregoneria, invece, fa la sua comparsa nel 1300, è francese, ma deriva dal latino e significa “colui che influenza il destino”.

mercoledì 27 marzo 2013

Santo del giorno 27 marzo

San Ruperto

 

San Ruperto è il primo Vescovo di Salisburgo, di cui diverrà patrono. Proviene da una nobile famiglia dell’alto Reno, i robertini, imparentati con i carolingi e visse tra il VII e VIII secolo; si forma religiosamente a Worms dai monaci irlandesi itineranti e proprio per questo la sua fama esce dalla terra di Germania per arrivare nella verde isola d’Irlanda. Appresa la predicazione itinerante, seguì l’esempio dei suoi maestri e si recò in Baviera per predicare la Parola di Dio, ottenendo anche buoni risultati. Si fermò sul lago Waller, a 10 km dall’odierna Salisburgo e in quel luogo, anche grazie al conte Theodo di Baviera, costruisce una Chiesa dedicata a San Pietro. Ma Ruperto non si accontentò e richiese al conte un altro territorio sul fiume Salzach, dove fondò un monastero dedicato anch’esso a San Pietro. Vicino al monastero di San Pietro, sorse anche un convento femminile, gestito dalla nipote di Ruperto, Erentrude; questi due monasteri furono i più ...

... antichi di tutta l’Austria e costituirono il nucleo della nuova Salisburgo.

Furono Ruperto e tutti i suoi collaboratori i fautori della nuova città, anche per questo gli abitanti di Salisburgo vedono nel loro Vescovo, il rifondatore della città, oltre che il Santo patrono.

Il 27 Marzo del 718, giorno di Pasqua, Ruperto morì.

Le sue reliquie sono ora conservate nella magnifica Cattedrale di Salisburgo, edificata nel XVII secolo.


Altri santi e celebrazioni del 27 marzo:

- Sant' Aimone di Halberstadt
- Sant' Alessandro di Drizipara
- Sant' Augusta di Serravalle
- Beato Claudio Gallo
- Santi Fileto e Lidia, sposi, e Macedone, Teoprepio, Cronide e Anfilochio
- Beato Francesco Faà di Bruno
- Madonna dei Lavoratori - Torino
- San Matteo di Beauvais
- Beata Panacea De' Muzzi
- Beato Pellegrino da Falerone

martedì 26 marzo 2013

Santo del giorno 26 marzo

Sant' Emanuele




La memoria di Sant’Emanuele appare nel Martirolgio Romano, ma di questo martire, associato sempre a San Teodosio e San Quadrato, se ne parla già nei Sinassari bizantini dei primi secoli del Cristianesimo. Uno dei Sinassari in questione racconta che Emanuele e Teodosio si presentarono spontaneamente alle autorità, per autoproclamarsi cristiani, spinti dalle gesta coraggiose di tanti martiri, specialmente del Vescovo Quadrato, appena giustiziato. Emanuele e Teodosio sapevano cosa li aspettava, ma l’importante era dimostrare la loro fede; fu anche grazie al coraggio e al sangue di uomini come questi, che il Cristianesimo ha superato indenne due millenni di storia. All’epoca la morte era una pena troppo lieve, quindi Emanuele e Teodosio, così come Quadrato prima di loro, furono torturati a lungo ed infine decapitati. Questa vicenda si svolse in Anatolia, nell’attuale Turchia alla fine del III secolo, durante una delle numerose persecuzioni romane contro ...

... i seguaci di Cristo.

Emanuele deriva dall’ebraico Immanuel e sigifica “Dio è con noi”; con questo nome Isaia chiama il futuro Messia e per questo fu usato come appellativo di Gesù.

E’ molto diffuso in Italia e nei paesi di lingua spagnola con le sue varianti.

Emanuele

[Fonte Santiebeati.it]

lunedì 25 marzo 2013

Santo del Giorno 25 marzo

Santa Lucia Filippini 

Lucia Filippini (Tarquinia, 13 gennaio 1672Montefiascone, 25 marzo 1732) fu una religiosa italiana, fondatrice della congregazione delle Maestre Pie; è stata proclamata santa da papa Pio XI nel 1930dal 2008 c'è la Gioventù di Santa Lucia Filippini chiamata Lu.&Gi..



Biografia

Santa Lucia Filippini nacque a Tarquinia,in Lazio,il 3 Gennaio del 1672,da famiglia di origini nobili. Discepola del cardinale Marcantonio Barbarigo e collaboratrice di Rosa Venerini, fondò numerose scuole pie per fanciulle povere a Montefiascone, Cornereto, Bagnoregio, Tarquinia e molte altre, soprattutto nel Lazio e successivamente nell'intero Stato della Chiesa. Lucia Filippini incontrò per la prima volta Rosa Venerini nel 1692: le Maestre erano state trasferite provvisoriamente nel convento di Santa Chiara, poiché il Cardinal Barbarigo doveva decidere dove poter aprire la nuova Scuola. Rosa raccontò di aver visto,nel refettorio,una ragazza giovane e snella, solerte e cartatevole nel servire gli altri, che rimase a sua volta colpita da quella donna rigida e seria, con un lungo abito scuro. Lucia entrò nelle grazie di Rosa e così nel 1707 papa Clemente XI la invitò a fondare uno dei suoi istituti anche a Roma, dove diede origine ad una nuova congregazione di Maestre Pie, autonoma da quella della Venerini (vedi Maestre Pie Filippini). Lucia rimarrà per il resto della sua vita a dirigere le Scuole di Roma come Superiora della sua Congregazione,autorizzata inizialmente dalla Venerini. La Filippini morì di tumore al seno il 25 Marzo 1732,quattro anni dopo Rosa Venerini,che l'aveva sostenuta e accudita durante i periodi di malattia e durante i periodi difficili,come una Madre spirituale. Lucia morì a 60 anni.

Culto

Fu dichiarata beata da papa Pio XI nel 1926 e canonizzata dal medesimo il 22 giugno 1930. La sua memoria liturgica il 25 marzo.

Altri santi e celebrazioni di oggi:

- Beato Andrea Laurenzo
- Beato Arnaldo de Amer
- Sant' Aroldo di Gloucester
- San Dismas, il Buon Ladrone
- San Dula
- Sant' Ermelando
- Sant' Everardo di Nellemburg
- Beato Francesco Bruno
- Beato Giacomo Bird
- Beato Guglielmo di Norwich
- Beato Ilarione (Pawel) Januszewski
- Sant' Isacco
- Beata Josaphata Michaelina Hordashevska
- Santa Margherita Clitherow
- Beata Maria Rosa Flesch
- Santa Matrona di Tessalonica
- San Mona di Milano
- San Nicodemo di Mammola
- Beato Omeljan (Emilian) Kovc
- San Pelagio di Laodicea
- San Pietro Formica
- Beato Placido Riccardi
- San Procopio di Sazava
- San Quirino di Roma
- San Riccardo di Pontoise
- Beato Tommaso da Costacciaro


*Nota: Quest'anno la Solennità dell'Annunciazione del Signore coincide con il Lunedì della Settimana Santa, per questo motivo è stata spostata a lunedì 8 aprile. 

martedì 12 marzo 2013

Santo del giorno 12 Marzo

SANTA FINA DA SAN GIMIGNANO
Fina dei Ciardi nacque a San Gimignano nel 1238. Era figlia di Cambio Ciardi e di Imperiera, una famiglia di nobili decaduti. Visse tutto il tempo della sua breve esistenza in una modesta abitazione situata nel centro storico della città turrita, nel vicolo che oggi porta il suo nome.
Ebbe una vita molto umile e sin da piccola coltivava la devozione per la Madonna: si dice che uscisse di casa quasi ed esclusivamente per andare a Messa. Le notizie sui primi dieci anni di Fina sono pressoché assenti, tranne alcune leggende che furono divulgate dopo la sua morte.
La triste svolta nella vita di Fina ebbe luogo quando nel 1248 fu colpita da una grave malattia (probabilmente una forma tubercolare tipo osteomielite o coxite). Qui iniziò un vero e proprio calvario fatto di dolori fisici e disgrazie familiari ed alleviato soltanto dalla sua profonda fede. Ella rifiutò un comodo giaciglio decidendo di rimanere immobile su una tavola di legno di quercia. Col passare del tempo e con l'acutizzarsi della malattia, il suo corpo si impiagò a tal punto che si attaccò al legno della tavola e la sua putrida carne divenne cibo per vermi e topi. Durante la sua malattia perse il padre e successivamente la madre per una caduta accidentale. Nonostante queste avversità lei, nella sua povertà, ringraziava Dio e desiderava sempre più la separazione della sua anima per unirsi al suo sposo Gesù Cristo. Questa immensa devozione fu un esempio per tutti i sangimignanesi che si recavano sovente a trovare la povera ammalata i quali sorprendentemente ricevevano parole di conforto da parte di una fanciulla che, nonostante le sofferenze subite, si mostrava serena e rassegnata al volere del Signore. Il 4 marzo 1253, dopo cinque anni di sofferenze passate sulla durezza di quella tavola, mentre le nutrici Beldia e Bonaventura assistevano inesorabili al suo imminente trapasso, san Gregorio Magno apparve nella lugubre stanza dell'ammalata e le predisse la morte che sarebbe avvenuta otto giorni più tardi. E così avvenne il 12 marzo 1253, quando la fanciulla ricevette l'estrema unzione e spirò all'età di soli quindici anni.
Già l'apparizione di san Gregorio è un miracolo e forse è quello più significativo della vita della fanciulla anche perché la poverella morì il 12 di marzo proprio nel giorno di san Gregorio come quest'ultimo le aveva predetto.
Quando il corpo di Fina fu staccato (con non poche difficoltà) dalla tavola di quercia, i presenti notarono che dal legno erano fiorite delle gialle viole a ciocche e che nella casa si diffuse un fragrante odore di fiori freschi. Le viole nacquero anche sulle mura di San Gimignano e vi nascono ancora oggi tanto che dagli abitanti del luogo sono chiamate "Viole di Santa Fina".
Il corpo della fanciulla fu trasportato nella Pieve Prepositura e durante il tragitto tutta la popolazione le rese omaggio esclamando «È morta la Santa!».
Il pellegrinaggio dei sangimignanesi alla Pieve per vedere la salma durò alcuni giorni tanto da ritardarne la tumulazione. Durante questo periodo di esposizione al pubblico le vennero attribuite numerose guarigioni di malati fra le quali viene ricordata quella della sua nutrice Beldia. La donna aveva la mano rattrappita a causa della fatica nel sostenere la testa di Fina durante la sua malattia. Mentre stava dinanzi al cadavere situato nel coro della Pieve, la mano della fanciulla morta le sollevò e le prese la sua guarendola.
Sempre nel momento del suo trapasso si racconta che le campane suonassero a festa senza che nessuno le avesse mosse.
Moltissimi malati che, negli anni seguenti, fecero pellegrinaggio alla sua tomba furono miracolosamente guariti ed alcuni di loro divennero fra i più ferventi apostoli del culto della Santa.
Una nota a parte meritano alcuni aneddoti che riguardano la vita di Fina. Per quanto estremamente dettagliati, con l'intento di fornire notizie sulla sua vita e accreditare altri miracoli avvenuti, provengono da fonti che le catalogano come leggende.
Tuttavia resta un mistero il fatto che la piccola abbia deciso di restare su una tavola di quercia. Pare che ella, nel periodo antecedente la sua malattia, fosse entrata nelle simpatie di un soldato il quale, come pegno d'amore, le avrebbe donato un'arancia. Dinanzi al rimprovero dei genitori per l'accettazione di tale dono avrebbe in seguito scelto di giacere su una rozza e dura tavola come segno di penitenza.
Un altro episodio narra che durante una passeggiata con due sue amiche udì il pianto di una bambina più piccola. Smeralda, questo il suo nome, stava piangendo per aver rotto una brocca che la madre le aveva dato per attingere l'acqua alle Fonti. Mentre si era fermata a giocare con alcuni bambini aveva lasciato il recipiente incustodito che, rotolando, si era frantumato. Fina le disse di ricomporre i cocci e di metterli sotto l'acqua: la brocca ritornò integra e si riempì.
Da ricordare anche quello che accadde ad un certo Cambio di Rustico, vicino di casa di Fina, che si vantava di aver assistito alla fioritura delle viole sulla tavola al momento del trapasso. Il 12 marzo di alcuni anni dopo, quando tutti si astenevano dal lavoro per ricordare la poverella, si recò nel bosco a fare la legna e si ferì ad una gamba. Sofferente dal dolore chiese perdono alla Santa per non aver rispettato il giorno festivo cosicché la sua ferita si rimarginò e ogni pena cessò.
Gli altri miracoli attribuiti a Santa Fina sono presenti in racconti, dipinti, rime e nei processi verbali rogati dai notai.

lunedì 11 marzo 2013

Santo del giorno 11 Marzo

SAN COSTANTINO
Costantino regnò sulla Dumnonia (Cornovaglia, Inghilterra sud-occidentale), sul cui trono salì probabilmente dopo il padre Cado.
Tutto ciò che si sa di certo su Costantino viene da Gildas, che lo chiama "cucciolo tirannico dell'impura leonessa di Damonia". Si pensa che in questo caso per Damnonia si intenda il sud-est dell'Inghilterra e non l'omonimo regno che si sarebbe sviluppato nell'odierna Scozia. Gildas critica Costantino anche per aver ripudiato o allontanato o rinchiuso sua moglie allo scopo di commettere molti adulteri. Inoltre, dopo aver giurato di voler fare la pace coi suoi nemici, si travestì da abate, entrò nel santuario dove questi si trovavano e li uccise ai piedi dell'altare. Anche il cavaliere arturiano Sir Costantino, che secondo l'Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth successe a Artù sul trono di trono di Britannia, si travestì da vescovo e uccise in un chiesa i due figli di Mordred, con cui era in conflitto. Per questo c'è chi pensa che questa figura leggendaria sia basata su quella storica di Costantino di Dumnonia.
Costantino incontrò san Petroc, convertendosi subito dopo al Cristianesimo. Dopo aver abdicato in favore del figlio Bledric, si dedicò alla vita religiosa. Fondò chiese, attraversò il canale di Bristol e si unì a san David, con cui visse molti anni come monaco. Alla fine si ritirò in eremitaggio a Costyneston (Cosmeston), vicino Cardiff, dove sarebbe morto, anche se esistono molte altre storie secondo cui avrebbe viaggiato e predicato nel nord, tra i Pitti, prima di essere martirizzato a Kintyre (in Scozia) il 9 maggio del 576. Secondo Giovanni di Fordun, sarebbe stato sepolto a Govan. Questo santo sarebbe diverso dal San Costantino di Strathclyde, figlio, secondo la vita di san Kentigern, del sovrano di questo regno: per David Nash Ford, ad esempio, suo padre sarebbe stato Riderch Hael di Strathclyde.

venerdì 8 marzo 2013

Santo del giorno 8 Marzo

SAN GIOVANNI DI DIO
Giovanni di Dio è stato un religioso spagnolo di origine portoghese, fondatore dell'Ordine Ospedaliero detto dei "Fatebenefratelli". Nel 1690 è stato proclamato santo da papa Alessandro VIII.
All'età di 8 anni, assieme a un chierico si allontanò dalla casa paterna e giunse in Spagna, dove ad Oropesa (Toledo) fu accolto dalla famiglia di Francisco Cid, detto “el Mayoral”.
Ad Oropesa trascorse gran parte della sua vita. Fino a 27 anni Juan si dedicò alla pastorizia poi si arruolò, partecipando come soldato, a due battaglie, una prima a Pavia dalla parte di Carlo V contro Francesco I e successivamente contro i Turchi, a Vienna.
Finita la vita militaresca, finché ebbe soldi vagò per mezza Europa giungendo fino in Africa a fare il bracciante e poi fece il venditore ambulante a Gibilterra. Infine, nel 1537 si stabilì a Granada e aprì una piccola libreria. Avvertiva già una grande vocazione per Gesù nell'assistenza dei poveri e dei malati, ma fu allora che Giovanni mutò radicalmente indirizzo alla propria vita, in seguito a una predica di san Giovanni d'Avila.
Attraversò una grande crisi di fede, distrusse la sua libreria, andò in giro per la città agitandosi e rotolandosi per terra e rivolgendo ai passanti la frase che sarebbe divenuta l'emblema della sua vita:

« Fate (del) bene, fratelli, a voi stessi. »
Considerato pazzo fu rinchiuso nell'Ospedale Reale di Granada, da dove uscì qualche mese dopo rasserenato e intenzionato ad assecondare la sua vocazione religiosa.
Dopo essersi posto sotto la guida di Giovanni d'Avila, si recò in pellegrinaggio al Monastero reale di Santa Maria de Guadalupe e, tornanto a Granada, diede inizio alla sua opera di assistenza ai poveri, malati e bisognosi.
Nonostante le diffidenze iniziali, si unirono a lui altre persone, che si dedicarono completamente all'assistenza ai malati. Il suo modo di chiedere la carità era molto originale, infatti era solito dire: “Fate del bene a voi stessi! Fate bene, fratelli!”.
Fondò il suo primo ospedale, organizzò l'assistenza secondo le esigenze di quelli che considerava i ‘suoi' poveri. L'Arcivescovo di Granada gli cambiò il nome in Giovanni di Dio. Si impegnò anche nei confronti delle prostitute, aiutandole a reinserirsi nella società. Morì l'8 marzo 1550.

giovedì 7 marzo 2013

Santo del giorno 7 Marzo

SANTA PERPETUA E SANTA FELICITA

Perpetua e Felicita erano due giovani cristiane che subirono il martirio sotto l'imperatore Settimio Severo.
Secondo la tradizione, la loro passio fu redatta da Perpetua e Felicita stesse e la sua compilazione definitiva fu opera dell'apologista Tertulliano.
In base a questo racconto, Vibia Perpetua, una nobile e colta matrona di Cartagine di ventidue anni, madre di un bambino che ancora allattava, fu arrestata insieme ai suoi servi Revocato, Saturnino, Secondino e Felicita, incinta e in procinto di partorire: erano tutti catecumeni ed erano stati convertiti al Cristianesimo da Saturo.
Nel 202, un decreto dell'imperatore Settimio Severo (193-211) aveva proibito a tutti i cittadini dell'impero di diventare cristiani, chiunque avesse disobbedito sarebbe stato soggetto a pene severe.
Il padre di Perpetua era pagano, mentre sua madre e due suoi fratelli erano cristiani, uno di loro era anche catecumeno. Il terzo fratello, il giovane Dinocrate, morì ancora bambino.
Dopo il loro arresto, e prima di essere condotti in prigione, i cinque catecumeni furono battezzati. Perpetua e Saturo lasciarono dei fedeli e puntuali resoconti delle sofferenze e dei patimenti durante la prigionia, il tentativo del padre di Perpetua di indurla all'apostasia, le loro visioni e tutte le vicissitudini prima della loro esecuzione.
Poco dopo la morte dei cinque martiri, un cristiano zelante ha aggiunto a questi documenti preziosi anche il racconto dell'esecuzione.
Il buio e l'atmosfera oppressiva della prigione spaventarono molto Perpetua, che era anche molto in ansia per la vita del suo bambino. Due diaconi, corrompendo il carceriere, riuscirono a far visita ai prigionieri, alleviandone un po' le sofferenze. Anche la madre ed il fratello catecumeno fecero visita a Perpetua, che poté riabbracciare e nutrire il suo bambino, tenendolo in cella con sé.
Perpetua ebbe anche una visione, in cui saliva su una scala fino a raggiungere un prato verde, in cui pascolava un gregge di pecore. Dopo questa visione, capì di essere prossima al martirio.
Pochi giorni dopo il padre di Perpetua, avendo saputo che il processo stava per avere luogo, si recò in visita alla prigione, supplicando la figlia di non infangare il suo nome, ma Perpetua restò salda nella sua fede. Il giorno seguente i sei catecumeni furono processati dinanzi al procuratore Ilariano. Tutti e sei professarono con forza la loro fede cristiana, il padre di Perpetua, portandole il figlio, tentò nuovamente di indurla all'apostasia, perfino il procuratore fece delle rimostranze verso di lei, ma invano. Perpetua rifiutò di fare sacrifici agli dei per la salute dell'imperatore. Suo padre fu allontanato con la forza dal procuratore e fustigato.
I sei catecumeni furono condannati ad essere sbranati da belve feroci.
Sempre secondo le leggende agiografiche, in una visione Perpetua vide il suo fratellino Dinocrate, morto alla tenera età di 7 anni, dapprima triste e sofferente e subito dopo sano e felice; in un'altra visione vide se stessa impegnata in una lotta vittoriosa contro un etiope selvaggio, le fu subito chiaro che non avrebbe lottato contro belve feroci, bensì contro il diavolo.
Anche Saturo tramandò per iscritto le sue visioni: in una di esse era trasportato insieme con Perpetua da quattro angeli in uno splendido giardino, dove incontrarono altri martiri cristiani, vittime della persecuzione e delle loro stesse sofferenze: Giocondo, Saturnino, Artaio, e Quinto. Nella visione vide anche il vescovo Ottato di Cartagine ed il sacerdote Aspasio che implorarono i martiri per la riconciliazione. Frattanto si stava avvicinando la festa del natale del cesare Geta, in occasione della quale i cristiani condannati dovevano lottare contro bestie feroci, durante i giochi militari, a tal fine vennero trasferiti dalla prigione nell'arena. Il carceriere Pudete che aveva imparato a rispettare i catecumeni, permise ad altri cristiani di far loro visita. Il padre di Perpetua andò a trovarla tentando invano di dissuaderla.
Secundo, uno dei catecumeni, morì in prigione. Felicita, che quando fu arrestata era all'ottavo mese di gravidanza, era persuasa che non l'avrebbero sottoposta al martirio insieme agli altri, dal momento che la legge vietava l'esecuzione di donne incinte. Invece due giorni prima dell'inizio dei giochi diede alla luce una bambina, che venne adottata da una donna cristiana.
Il 7 marzo, durante uno spettacolo castrense per celebrare il compleanno del cesare Geta, figlio di Settimio Severo, i cinque catecumeni furono condotti nell'anfiteatro. In seguito alla richiesta della folla, furono dapprima fustigati, poi un cinghiale, un orso e un leopardo furono aizzati contro gli uomini, ed una mucca selvaggia contro le donne. Feriti dalle bestie feroci si baciarono per l'ultima volta prima di essere uccisi. I loro corpi furono sepolti a Cartagine.

mercoledì 6 marzo 2013

Santo del giorno 6 Marzo

SANTA COLETTA DI CORBIE
Coletta di Corbie fu una clarissa francese, autrice della riforma che portò alla nascita dell'Ordine delle Clarisse Colettine. Nel 1807 è stata proclamata santa da papa Pio VII.
Apparteneva ad un'umile famiglia di Corbie (il padre era carpentiere presso la locale abbazia benedettina).
Fu beghina, poi monaca benedettina, quindi Clarissa urbanista: disgustata dal rilassamento della disciplina, dal raffreddamento dell'ideale monastico e dall'abbandono della rigida povertà imposta dalla Regola di Santa Chiara, dopo un periodo di clausura (1402-1406), ottenne da Benedetto XIII (papa Avignonese) l'autorizzazione a riformare i monasteri dell'ordine ed a fondarne di nuovi, il tutto allo scopo di riportare la regola alla primitiva austerità.
Dopo aver tentato di applicare la sua riforma al convento di Baume-les-Messieurs, decise di fondare un nuovo monastero a Besançon (1410). Si spense nel 1447 presso il monastero di Gand, uno dei diciassette che aveva fondato.

martedì 5 marzo 2013

Santo del giorno 5 Marzo

Giovan Giuseppe della Croce

Giovan Giuseppe della Croce,fu un frate dell'Ordine dei Frati Minori. Il 26 maggio 1839 è stato proclamato santo da papa Gregorio XVI. Nacque ad Ischia con il nome di Carlo Gaetano Calosirto, il 15 agosto del 1654 nel borgo di Ischia Ponte, figlio del nobile Giuseppe e di donna Laura Gargiulo. Frequentò nell'isola i padri agostiniani, da cui ricevette la prima formazione umanistica e religiosa; a 15 anni scelse la vita religiosa per la grande attrazione che esercitava sul suo animo, aderendo ai Francescani scalzi della Riforma di San Pietro d'Alcantara, detti anche alcantarini dal nome del riformatore, dipendenti dal convento di Santa Lucia al Monte in Napoli.Cambiò il nome in quello di Giovan Giuseppe della Croce e fece il noviziato sotto la guida ascetica di padre Giuseppe Robles. Nel gennaio 1671 fu inviato insieme ad altri 11 frati, di cui egli era il più giovane, presso il santuario di Santa Maria Occorrevole a Piedimonte d'Alife, dove grazie alla sua fattiva opera fu costruito un convento; divenne sacerdote il 18 settembre 1677.Durante la sua permanenza a Piedimonte, fece costruire in una zona più nascosta del bosco un altro piccolo conventino detto "la solitudine", ancora oggi meta di pellegrinaggi, per poter pregare più in ritiro; per parecchi anni guidò contemporaneamente il noviziato a Napoli come maestro, e il convento a Piedimonte come padre guardiano, adoperandosi tra l'altro in forma molto attiva per la costruzione del convento del Granatello in Portici (Napoli).Agli inizi del Settecento l'Ordine Francescano subì una tempesta organizzativa, dovuta ai forti dissensi sorti fra gli alcantarini, provenienti in gran parte dalla Spagna, e quelli italiani, che provocò, con l'approvazione pontificia, la separazione dei due gruppi per le loro nazionalità; gli spagnoli ottennero il convento di Santa Lucia al Monte e del Granatello.Padre Giovan Giuseppe, nominato capo e guida del gruppo italiano, dovette barcamenarsi in tutte le difficoltà che venivano poste dai potenti confratelli spagnoli, richiamò i circa 200 frati ad un rispetto più conforme alla Regola e riordinò gli studi.Scaduto il suo mandato, ebbe dall'arcivescovo di Napoli, cardinale Francesco Pignatelli, l'incarico di dirigere settanta fra monasteri e ritiri napoletani, uguale incarico ebbe anche dal cardinale Innico Caracciolo per la diocesi di Aversa.Essendo qualificato direttore di coscienze, a lui si rivolsero celebri ecclesiastici, nobili illustri, persino Sant' Alfonso Maria de' Liguori e San Francesco De Geronimo; il Signore gli donò vari carismi, come la bilocazione, la profezia, la lettura dei cuori, la levitazione, apparizioni della Madonna e di Gesù Bambino, i miracoli, come quello della resurrezione del marchesino Gennaro Spada; fu visto inoltre passare per le strade di Napoli sollevato di un palmo da terra, in completa estasi.Il 22 giugno 1722, con decreto pontificio, i due rami alcantarini, furono riuniti di nuovo e quindi anche il convento di Santa Lucia al Monte ritornò ai frati italiani, ed è lì che Giovan Giuseppe della Croce, dopo averci vissuto per altri dodici anni, morì il 5 marzo 1734; la sua tomba, posta nel convento, è stata ed è tuttora centro di grande devozione dei napoletani, che lo elessero loro compatrono nel 1790.Beatificato da papa Pio VI il 24 maggio 1789, fu poi elevato agli onori degli altari come santo da papa Gregorio XVI il 26 maggio 1839, insieme ad altri quattro santi: San Francesco De Geronimo, Sant'Alfonso Maria de' Liguori, San Pacifico da San Severino e Santa Veronica Giuliani.Il vescovo di Ischia, Monsignor Filippo Strofaldi, ha ottenuto che le spoglie del santo venissero trasferite da Santa Lucia al Monte in Napoli al convento francescano dell'isola.

 

lunedì 4 marzo 2013

Santo del giorno 4 Marzo

SAN CASIMIRO DI CRACOVIA
San Casimiro viene venerato come santo patrono della Polonia e della Lituania dalla Chiesa cattolica, che lo ricorda il 4 marzo.
Casimiro della nobile famiglia dinastica dei Jagelloni, nacque a Cracovia nel Wawel, nel famoso palazzo reale della città. Terzogenito di Casimiro IV re di Polonia, e della regina Elisabetta d'Austria, nipote di Ladislao II di Polonia. Suo nonno materno era Alberto II d'Asburgo, Re di Boemia, d'Ungheria, e "Re dei Romani" nel Sacro Romano Impero.
Dall'età di nove anni ricevette la propria educazione da Giovanno Dlugosz, storiografo e canonico di Cracovia, e da Filippo Buonaccorsi (anche conosciuto come Callimachus). A tredici anni gli fu offerto il trono d'Ungheria dalle fazioni avverse al Re Mattia Corvino al momento in carica. Casimiro, inizialmente entusiasta di difendere i territori cristiani dai Turchi, esternò la propria disponibilità in tal senso e si recò in Ungheria per essere incoronato. La sua nomina aveva legittimazione per il fatto che suo zio Ladislao III, Re di Polonia e di Ungheria, era stato ucciso nella battaglia di Varna nel 1444. Appena seppe però della contrarietà del Papa Sisto IV alla sua incoronazione, contrarietà legata all'obiettivo di non accrescere le tensioni già elevate con l'Impero Ottomano, Casimiro fece ritorno nella propria terra polacca.
Suo padre, Re Casimiro IV, iniziò allora ad indirizzarlo verso la politica interna della Confederazione polacco-lituana e sugli affari pubblici del regno e quando suo fratello Ladislao ascese al trono boemo, Casimiro diventò l'erede designato per il trono polacco. Nel 1479 il Re si recò per 5 anni in Lituania, lasciando di fatto il figlio al potere in Polonia. Dal 1481 al 1483 amministrò lo Stato con grande saggezza ed equilibrio. Suo padre nel frattempo cercò di combinare il suo matrimonio con la figlia dell'Imperatore Federico III, ma Casimiro preferì rimanere celibe. Per la sua grande devozione religiosa, si esponeva a frequenti e prolungati digiuni che forse minarono il suo stato di salute. Indebolito nel fisico, fu colpito dalla tubercolosi, dalla quale non riuscì più a guarire. Nel 1484, durante un suo viaggio in terra lituana, morì a Hrodna. I suoi resti mortali furono sepolti a Vilnius, dove sono ancora conservati in una cappella della Cattedrale della città.

venerdì 1 marzo 2013

Santo del giorno 1º Marzo

SANT'ALBINO DI ANGERS

Albino di Angers è stato un abate e vescovo francese. Considerato santo dalla Chiesa cattolica, è ricordato il 1º marzo.
Nato da una nobile famiglia gallo-romana a Vannes, in Bretagna, Albino fu monaco e poi abate per venticinque anni a Tincillac (o Cincillac), da identificarsi con Théhillac, presso Guérande (o a Nantilly, nei pressi di Saumur) dal 504. Nel 529, Albino fu eletto, contro la sua volontà, vescovo di Angers.
Come vescovo, condusse una campagna contro i matrimoni incestuosi, come quelli che si verificavano tra i membri della nobiltà. Partecipò ai Concili di Orléans del 538 e del 541 dopo aver ottenuto l'autorizzazione dal re Childeberto. Albino cercò e trovò il sostegno di Cesario di Arles, dopo aver visto il lassismo degli altri vescovi.
La tradizione vuole che abbia aiutato tutti coloro che erano in difficoltà, anche utilizzando i fondi diocesani per riscattare gli ostaggi dai pirati. Secondo un'altra tradizione, egli si scontrò con il re Childeberto, che aveva imprigionato una donna di nome Etherie, di una località vicino Angers; impossibilitato a garantire la sua liberazione, Albino andò a trovarla in prigione, e il soldato che cercò di opporglisi cadde morto ai suoi piedi. Questo fatto impressionò il re che permise ad Albino di liberarla.
Un'altra leggenda racconta che una volta Albino pregò fino a notte per alcuni uomini imprigionati nella Torre di Angers. Improvvisamente una grande pietra crollò dal muro, permettendo loro la fuga.
Albino morì nel 550 e fu sepolto nella chiesa di Saint-Pierre a Angers. Nel 556 gli venne dedicata una chiesa e il suo corpo fu sepolto nella cripta. Vicino a questa chiesa sorse un'abbazia, chiamata Saint-Aubin.
San Gregorio di Tours parla del culto di sant'Albino, che si diffuse in tutta Europa, rendendolo un santo molto popolare durante il medioevo. Venanzio Fortunato, quasi contemporaneo a lui, ha scritto una vita di questo santo. Diverse chiese furono dedicate a lui in tutto il continente: in particolare in Polonia, dove è il santo protettore dagli attacchi dei pirati. Questo potrebbe essere basato sulla tradizione che ricorda che Albino liberò dei parrocchiani che erano stati presi prigionieri dai pirati navigando sul fiume Loira. In seguito la tradizione è stata rafforzata da un miracolo registrato nel X secolo, quando la città murata di Guérande, vicino alla foce della Loira, pregò sant'Albino di aiuto ed essi trovarono i loro aggressori miracolosamente sconfitti.
Nel Medioevo, Nicholas Belfort, un canonico regolare nel monastero di San Giovanni Battista dalla città di Soissons, ha descritto dettagliatamente i miracoli compiuti presso la tomba di St. Aubin dopo l'anno 1000.

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