Una affermazione della numerologia avanzata da alcuni praticanti conclude che, dopo osservazioni empiriche e investigazioni, attraverso lo studio dei numeri l'uomo potrà scoprire aspetti segreti di sé stesso e dell'universo.

martedì 30 aprile 2013

Santo del giorno 30 aprile


Santa Sofia di Fermo Vergine e martire



Una cosa è certa, la Chiesa tramite il suo testo ufficiale, il ‘Martirologio Romano’ celebra al 12 aprile le sante Vissia e Sofia vergini e martiri di Fermo nel Piceno Italia; detto questo, di certo non si sa altro, né della loro vita né del perché sono celebrate insieme.
Per il resto abbiamo qualche notizia sparsa, lo storico Ughelli nella sua “Italia Sacra” vol. II, parlando della diocesi di Fermo (Ascoli Piceno), attesta che il corpo di santa Vissia riposa nella cattedrale e in effetti nella chiesa metropolitana della città, esistono parecchi reliquiari, fra i quali in un’urna distinta in ebano con ornamenti in metallo dorato di stile barocco, è conservato il capo di santa Vissia martire, stranamente in un’altra urna è pure conservato il capo di santa Sofia martire.
Questa coincidenza dei due crani, fa supporre che esse furono martirizzate nello stesso tempo, se non insieme e probabilmente decapitate.
Secondo tradizioni locali Sofia e Vissia subirono il martirio verso il 250, sotto l’impero di Decio (249-251) durante la settima persecuzione da lui indetta. Esiste nella cattedrale una lapide che descrive santa Vissia che nobilita la città natale con il suo martirio; i loro nomi facevano parte di una lista di santi venerati a Fermo, trasmessa il 5 agosto 1581 da un prelato locale, ad un sacerdote oratoriano e amico di Cesare Baronio, il quale come è risaputo compilò il primo “Martirologio Romano”, e inserì le due sante vergini e martiri insieme allo stesso giorno del 12 aprile.
Secondo alcuni documenti locali s. Sofia è stata celebrata anche il 30 aprile; a tutto ciò bisogna aggiungere che alcuni studiosi ritengono s. Sofia di Fermo, come del resto altre Sofie, come la vedova Sapienza (Sofia) martire, che in Occidente è venerata al 30 settembre insieme alle figlie Fede, Speranza, Carità e il cui culto è diffuso anche in Oriente con i nomi di Sofia, Pistis, Elpis, Agape e ricordate nel culto greco il 1° agosto.  

lunedì 29 aprile 2013

Santo del giorno 29 aprile


Santa Caterina da Siena Vergine e dottore della Chiesa
patrona d'Italia


«Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d'Italia, celebre. Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua ""cella"" di terziaria domenicana (o Mantellata, per l'abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno ""Caterinati"". Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d'Italia con Francesco d'Assisi. (Avvenire)
Patronato: Italia, Europa (Giovanni Paolo II, 1/10/99)
Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco
Emblema: Anello, Giglio
Martirologio Romano: Festa di Santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, che, preso l’abito delle Suore della Penitenza di San Domenico, si sforzò di conoscere Dio in se stessa e se stessa in Dio e di rendersi conforme a Cristo crocifisso; lottò con forza e senza sosta per la pace, per il ritorno del Romano Pontefice nell’Urbe e per il ripristino dell’unità della Chiesa, lasciando pure celebri scritti della sua straordinaria dottrina spirituale.




Quando si pensa a santa Caterina da Siena vengono in mente tre aspetti di questa mistica nella quale sono stati stravolti i piani naturali: la sua totale appartenenza a Cristo, la sapienza infusa, il suo coraggio. I due simboli che caratterizzano l’iconografia cateriniana sono il libro e il giglio, che rappresentano rispettivamente la dottrina e la purezza. L’insistenza dell’iconografia antica sui simboli dottrinali e soprattutto il capolavoro de Il Dialogo della Divina Provvidenza (ovvero Libro della Divina Dottrina), l’eccezionale Epistolario e la raccolta delle Preghiere sono stati decisivi per la proclamazione a Dottore della Chiesa di santa Caterina, avvenuta il 4 ottobre 1970 per volere di Paolo VI (1897-1978), sette giorni dopo quella di santa Teresa d’ Avila (1515–1582).
Caterina (dal greco: donna pura) vive in un momento storico e in una terra, la Toscana, di intraprendente ricchezza spirituale e culturale, la cui scena artistica e letteraria era stata riempita da figure come Giotto (1267–1337) e  Dante (1265–1321), ma, contemporaneamente, dilaniata da tensioni e lotte fratricide di carattere politico, dove occupavano spazio preponderante le discordie fra guelfi e ghibellini.

La vita

Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell'Oca) il 25 marzo 1347: è la ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’ Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali.
Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate, dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio...
Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò  in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle «mantellate» (dal mantello nero sull'abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità.
Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.
Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20).
Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo -MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie…

Le lettere

Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale. Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare.
La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno.

Per la causa di Cristo

Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti…
Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo.
I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419).
All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi proprio a santa Caterina: «Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento».
Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra,  Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza. 



 

venerdì 26 aprile 2013

Santo del giorno 26 aprile

FRANCA da Vitalta, santa.  



Discendente dalla nobile famiglia dei conti Vitalta, feudatari del contado piacentino nei pressi di Castellarquato e partecipanti attivi alla vita politica della città, nacque nel 1175, come viene tramandato quasi concordemente dalle fonti.
La viva e sincera religiosità dei genitori furono alla base dell'educazione familiare e F. non incontrò opposizioni quando, all'età di sette anni, espresse il desiderio di entrare in monastero come educanda. Nel 1182 fece quindi il suo ingresso nel monastero benedettino di S. Siro in Piacenza, accolta dalla badessa Brizia. Al compimento dei quattordici anni, sotto il vescovo Tedaldo da Milano, fece la professione perpetua: F. divenne parte integrante della vita della comunità monastica, dove godeva di prestigio e ammirazione per la rigorosa attuazione della regola. Già nel 1191, nonostante la giovanissima età, il suo nome venne incluso tra quelli delle monache testimoni all'importante atto di cessione in affitto - da parte della chiesa di S. Savino - della chiesa di S. Martino di Pontenure e di tutti i suoi beni a Brizia e al monastero di S. Siro, con un censo annuo di 160 libbre di cera.
Alla morte della badessa, avvenuta non prima del settembre del 1199 (e non nel 1198, come tutta la storiografia a partire dal Campi ritiene) - data in cui ancora Brizia acquistava terreni nell'area suburbana circostante il monastero - il capitolo conventuale elesse all'unanimità F. come nuova superiora.
Le contrapposizioni politiche che in quel periodo stavano scuotendo la città (Canetti), contemporaneamente all'aspro dissidio in atto già da alcuni anni tra potere comunale e Chiesa cittadina, ebbero come conseguenza una serie di interventi papali nei confronti della Comunità piacentina, culminati nell'interdetto che condusse all'esilio volontario il clero (verosimilmente solo quello del capitolo della maior ecclesia) e il vescovo, prima a Cremona e poi a Castellarquato, dal 1204 al 1207 circa. Innocenzo III nello stesso 1204 scomunicò i consoli cittadini, privando due anni dopo la città della sede episcopale, per il perdurare caparbio delle ingerenze arbitrarie del Comune nei fatti ecclesiastici. Tale tensione politica - di cui Campi (1651, pp. 92 s.) segnala fonti documentarie non sempre verificabili -, giunta a composizione soltanto quando Obizzo vescovo di Parma assolse il Consiglio e il popolo di Piacenza (22 o 23 dic. 1215), non mancò di ripercuotersi anche all'interno delle mura di S. Siro. Qui, forse a opera di Binia Porta, appartenente alla famiglia opposta ai Vitalta, si era formato un partito avverso a F., forte anche dell'appoggio, più o meno consistente, del vescovo Grimerio, fratello di Binia. Il Procaccianti attribuisce il ridimensionarsi della situazione anche all'intervento di Folco Scotti (poi vescovo della città dal 1210 al 1216 e santo), allora prevosto di S. Eufemia, che avrebbe contribuito a far sì che il vescovo si ricredesse sul conto di Franca.
Nel 1210 (secondo Reoldo; 1212 per Campi) ebbe luogo l'incontro con la giovane Carenzia Visconti, incontro che si rivelerà fonte di ulteriore crescita sia della fama sia della fortuna di Franca.
Discendente dal ramo visconteo piacentino che diede fra gli altri i natali a Baiamonte, abate del monastero cistercense di Chiaravalle della Colomba in quegli stessi anni e a Tebaldo, futuro papa Gregorio X, Carenzia, pur destinata a un matrimonio di alto rango, rinunciò al secolo per consacrarsi alla vita monastica, dopo che ebbe trascorso un anno di prova, su consiglio di F., presso uno dei pochi monasteri cistercensi femminili già avviati a pieno titolo, a Rapallo, in Liguria.
Con la cospicua dote che le era destinata, la giovane Visconti chiese alla famiglia di costruire a sua volta un monastero dello stesso Ordine, dove lei stessa desiderava risiedere. Ebbero inizio allora le complesse vicende della serie di fondazioni monastiche che segnarono gli ultimi anni della vita di F.: secondo la tradizione dal 1214 fino alla sua morte F. e la sua comunità compirono infatti vari trasferimenti, nella continua e insanabile tensione tra l'applicazione più rigorosa ed essenziale della regola e le necessità quotidiane, prima tra tutte quella della stessa incolumità, minacciata dalle continue scorrerie e ruberie nel contado piacentino a seguito delle rivalità e delle tensioni interne ed esterne presenti nella vita cittadina. In base alla documentazione, invece, resta assodata la presenza di F. come badessa di S. Siro almeno sino al maggio 1216, quando ancora presenziò a un'investitura di terre a nome del monastero.
Il primo nucleo di tali fondazioni, nato dalla volontà e dalla vocazione di Carenzia, sorse - secondo il parere unanime degli storiografi - nel 1214 a Montelana, dietro licenza del vescovo Folco Scotti, a seguito dell'acquisto o della donazione del terreno da parte dei Visconti stessi. Un secondo monastero, quello di Vallera, venne fondato all'incirca nello stesso periodo. La documentazione a noi nota non attesta l'effettiva presenza di F., anche se nelle fonti compare una "Franca" - senza però la denominazione "de Vitalta" - presente in un atto di investitura ad fictum del 1214. La storiografia, pur nell'incertezza dei dati riguardanti F., attesta comunque una serie di atti giuridici riguardanti la comunità guidata dalla nobile piacentina, che condussero le monache a trasferirsi in tre sedi diverse, ultima delle quali - e definitiva - quella di Pittolo presso Piacenza (fondata, secondo Campi, il 10 apr. 1218), detta di S. Maria del Terzo Passo.
Quale che sia la veridicità delle fonti documentarie citate dal Campi - come si è detto non più completamente verificabili - e la correttezza della loro interpretazione, rimane l'immagine di una comunità intorno alla quale F. aveva saputo creare, con la sua stessa vita al di sopra di ogni sospetto, una rete di benefattori e sostenitori, dai quali giungevano non solo consacrazioni alla vita monastica, ma anche lasciti in natura, preziosi per la fioritura e la propagazione dell'Ordine sul territorio. Il fervore di F. in ogni attività, da quella di amministrazione dei beni e possessi del monastero a quella più minuta riguardante l'equilibrata gestione della quotidiana vita comunitaria, traeva vita e ispirazione dalla tensione spirituale della giovane, che le fonti ci presentano incessantemente intenta alla preghiera, alle pratiche ascetiche, alle veglie, ai digiuni.
La resistenza fisica di F. non fu pari alla tenacia spirituale: le frequenti cadute sul pavimento, testimonianza - secondo la Vita - di come la santa continuamente "contendebat cum diabolo" durante le veglie notturne (Reoldo, col. 392), la sua ostinazione nel volersi cibare di alimenti scotti e sconditi - nonostante le sofferenze allo stomaco - e la mancanza di riposo la portarono in breve tempo al deperimento e alla morte, avvenuta a Pittolo il 25 apr. 1218.
La prediletta Carenzia Visconti succedette a F. nella direzione della comunità di Pittolo, la cui solidità e compattezza si manifestò nelle nuove fondazioni monastiche che, prendendo iniziativa da quella stessa, fiorirono in tutto il Nord Italia.
Secondo la tradizione, F. venne canonizzata viva voce da Gregorio X, papa piacentino, nel settembre 1273, in occasione del viaggio per recarsi al concilio di Lione. La questione, tuttavia, rimane del tutto aperta in assenza di documenti che ne attestino la veridicità, ed essendo state riportate dal Campi stesso divergenze da parte della storiografia a lui anteriore.
A tutt'oggi il culto di F. è vivo nella città e nella provincia di Piacenza. Ricordata dalla Chiesa il 26 aprile, le sue spoglie sono conservate a Piacenza, nella chiesa dedicata a S. Raimondo.

Fonti : http://www.treccani.it/

Introduzione alla Magia

La Magia ha delle regole basilari che sono: Osare, Conoscere, Volere e rimanere in silenzio. Sono quattro regole unite tra di loro, ognuna propedeutica all’altra, per osare bisogna conoscere, per volere bisogna osare e per regnare dobbiamo stare in silenzio, questa è l’antica regola del SILENTIUM.
Bisogna Conoscere, perché solamente attraverso la conoscenza si può non credere alle superstizioni, la conoscenza apre la mente, forma la vera coscienza magica e della verità, mette in discussione noi stesse e indirizzarsi in questo cammino, porterà il magista a mettere in pratica la vecchia formula del Vitriolum.
Osare solo osando si riesce ad acquisire la forza per affrontare il cammino e ed agre per il meglio.

Volere, senza di essa l’opera magica tenderà a fallire. Bisogna volere e diventare un tutt’uno con il proprio obiettivo, restando nel silenzio.
La quiete interiore ci porterà ad una nuova consapevolezza, ad un personalizzazione di noi stessi, ad una pace interiore. Il magista o la strega dovrà per tutta la durata della vita, conservare le antiche tradizioni.
La magia è nata con l’uomo, la natura è magia, e l’uomo ha dentro di se la magia, sia del bene che del male, tocca poi all’uomo capire quale voler usare. La magia può essere Bianca, Rossa e Nera.
La Magia Bianca è la magia rivolta la bene, la Magia Rossa è chiamata anche magia Sexualis, magia dei desideri mentre la Magia Nera è la magia negativa, rivolta al male. La vera magia è quella riservata, una filosofia di vita e per concretizzarsi ha bisogno di stare in un clima di meditazione.


giovedì 25 aprile 2013

Santo del giorno 25 aprile

San Marco Evangelista



La figura dell’evangelista Marco è conosciuta grazie agli Atti degli Apostoli e ad alcune lettere di San Paolo e San Pietro; probabilmente non conobbe personalmente Gesù, ma alcuni studiosi identificano Marco con il ragazzo che segue Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani. Il suo vero nome è Giovanni, ma per presentarsi al mondo greco-romano, cambiò nome in Marco. La madre è la benestante Maria, che aiutava Gesù e suoi discepoli, mettendo a disposizione la sua casa; è proprio nella sua casa che si consuma l’ultima cena ed è lì che gli apostoli si radunano dopo la Passione di Cristo. Pietro considera Marco suo figlio spirituale ed è uno dei primi battezzati della storia. Nel 44 accompagnò Pietro e Barnaba fino a Cipro, tornò a Gerusalemme e nel 49 andò nuovamente a Cipro insieme a Barnaba, suo zio. Piano, piano ottiene la fiducia degli apostoli, tanto da accompagnare San Paolo a Roma nel 61 e tanto da essere ricordato da Paolo e Pietro in alcune lettere. Dopo la morte di Paolo, rimase per alcuni anni al fianco di Pietro ed è in questi momenti, grazie alla testimonianza del primo degli apostoli, che scrive il suo Vangelo, caratterizzato da una forma scorrevole e popolare. Pietro lo inviò poi, ad evangelizzare il nord dell’Italia, particolarmente ad Aquileia e sulle isole rialtine, la futura Venezia; qui sognerà un angelo che gli predice la grandezza della città lagunare e che quella sarebbe stata in futuro la sua tomba. Viene successivamente inviato in Egitto, dove fonda la Chiesa d’Alessandria e qui incontra il martirio sotto l’imperatore Traiano (53-117); viene torturato, trascinato da alcune funi sulle strade rocciose della città di Bucoli e lacerato viene tradotto in carcere.

Dopo una notte in cella, venne consolato da un angelo e il giorno successivo venne ancora trascinato per le vie rocciose, fino alla sua morte; era il 25 Aprile del 72 e Marco aveva 57 anni. Gli ebrei e i pagani cercarono di incendiarne il corpo, ma una tempesta mise in fuga gli aggressori e i seguaci cristiani ebbero il tempo per recuperare il corpo e donargli degna sepoltura in una grotta di Bucoli.Il Vangelo di Marco venne scritto tra quello di Matteo, redatto nel 40 e quello di Luca, scritto nel 62; Marco, detto lo stenografo di Pietro, scrisse il Vangelo, composto di sedici capitoli, tra il 50 e 60 sotto dettatura di San Pietro. Nel V secolo le reliquie del Santo furono spostate nella Chiesa di Canopo di Alessandria, ma la Chiesa fu data alle fiamme dagli arabi nel 644; nell’828 giunsero ad Alessandria due mercanti veneziani, che per difendere le reliquie dai continui attacchi degli arabi, le trasferirono a Venezia, dove arrivarono il 31 Gennaio 828.

Le reliquie furono accolte con grande onore e riposte in una piccola cappella, si iniziò quindi la costruzione di una maestosa Basilica, tanto che pure Dante in un suo poema la ricordò; Nell’832 la Basilica fu inaugurata, ma nel corso dei secoli ebbe anche numerosi guai, nel 976 fu incendiata in parte dal popolo in rivolta contro il Doge: nel 1063 iniziarono i lavori della Basilica moderna e nel 1094 venne consacrata ufficialmente, intanto nel 1071 San Marco divenne il Patrono ufficiale della città, al posto di San Teodoro, fino ad allora protettore di Venezia.

Il 25 Aprile del 1094 avvenne la consacrazione ufficiale della Basilica, ma nel frattempo le reliquie erano andate perse e i prelati chiesero penitenze e preghiere per aiutare a ritrovare i resti del Santo; le reliquie vennero trovate proprio nel giorno della consacrazione della Basilica. Il Santo rimase da allora strettamente legato a Venezia, anche durante gli anni splendenti della Serenissima, che adottò come simbolo il leone di San Marco, che artiglia il libro con la scritta “Pax tibi Marce evangelista meus” e per secoli il vessillo di San Marco fu innalzato in ogni luogo della città e nei futuri possedimenti veneziani. Insomma la visione dell’angelo, che Marco ebbe molti secoli prima, si compì meravigliosamente. San Marco è inoltre, Patrono dei vetrai, dei notai e degli ottici.

fonte:santiebeati.it

mercoledì 24 aprile 2013

Candele: Significato occulto, uso formule, rituali

Fin dai tempi remoti, la candela simbolo della luce, è stata circondata da miti e leggende. La luce infatti, ha sempre rappresentato per l'uomo il potere divino, ovvero la saggezza, l'illuminazione intellettuale, la conoscenza, la realizzazione spirituale. Da ciò nasce la pratica magica di accendere candele. È questa una forma di magia delle più semplici, in quanto richiede un facile rituale, pochi oggetti cerimoniali e un linguaggio chiaro e comprensibile anche ai non adepti. Pur trattandosi di una magia "facile", tuttavia, quella delle candele agisce con altrettanta potenza delle parole di evocazione, o dei cerchi magici e dei pentacoli dell'Alta Magia. Qui cercherò di spiegare con chiarezza il significato magico, i rituali e le formule per la pratica della magia delle candele, illustrerò i rapporti tra colori astrali e cercherò di esporre nel modo più chiaro possibile le formule per assicurarvi protezione dalle malattie e la morte, nonchè per la protezione personale.



Che cos'è la magia delle candele?

Fin dai tempi più remoti la candela è stata per l'uomo fonte di luce e simbolo di conforto. A causa della loro fondamentale importanza nella vita quotidiana le candele vennero circondate da miti e leggende, ciò dimostra quanto fossero ritenute importanti. Provate ad immaginare la scena di una caverna preistorica. Scoperto il fuoco, l'uomo si era presto reso conto che la sua utilità, come fonte di luce in uno spazio chiuso, era limitata. Così invece del fuoco, uso grasso animale per ottenere la luce di una fiammella che tenesse lontani gli spiriti notturni. Era stata inventata la candela. Simbolicamente la luce ha sempre rappresentato per l'uomo il potere divino. Negli antichi "Misteri" del periodo classico essa simboleggiava la saggezza, l'illuminazione intellettuale, la conoscenza, la realizzazione spirituale. Per contrasto, l'oscurità rappresentava l'ignoranza, la stupidità, il male e la caduta nel materialismo. Infatti, si credeva che ogni uomo nascondesse in sè una scintilla di luce divina, capace di diventare una fiamma ardente di spiritualità, se correttamente guidata dalla morale. In questo modo si rappresentava l'anima immortale dell'uomo con la fiamma di nua candela, che brilla nell'oscurità del mondo. Anche se una lieve brezza poteva far affievolire questa luce incerta, nella quiete e nella tranquillità la fiamma si levava forte e superba. Proprio come, anche nelle difficoltà e nelle incertezze della vita, gli animi degli uomini si difendono dagli attacchi delle forze minacciose dell'oscurità. È da queste elevate convinzioni che nasce la pratica magica di accendere candele. Oggi noi tendiamo a nutrire una certa diffidenza nei confronti della parola "magia", e ciò è principalmente dovuto a secoli di persecuzione, che hanno reso la parola priva di significato per molte persone. Alcuni credono che si tratti giochi da prestigiatori o la confondono con " patti con il diavolo " e altre sciocchezze del genere. In realtà, la parola magia viene dalla radice magi, che significa semplicemente persone sagge, e si riferisce ad un'antica casta di sacerdoti.
Un mago è solo un saggio, abile nelle arti di natura occulta (o detta anche nascosta), che sono conosciute o riconosciute dalla maggioranza dei suoi simili.

Una semplice arte magica


Accendere una candela è la pratica magica più semplice in quanto richiede poco rituale, pochi oggetti cerimoniali, e un uso del linguaggio facilmente comprensibile da tutti. Per la magia delle candele non si chiede all'allievo né di imparare i 365 nomi di Dio, o di avere la padronanza di lingue antiche come l'Ebraico o il Sanscrito, né di dissotterrare la mandragola alla luce della luna piena. Gli oggetti necessari a questa pratica possono essere acquistati in qualsiasi grande magazzino, e il rituale può essere eseguito in qualsiasi soggiorno o camera da letto della terra. Perfino anticamente, quando la magia era dominio quasi esclusivo di anziani eruditi che sapevano leggere e scrivere, la magia delle candele rimaneva la più naturale pratica magica della gente semplice. Accendere delle candele per ragioni magiche non è difficile e tutavia si può dire, senza paura di essere contraddetti, che agisce altrettanto potentemente quando le parole di evocazione, i tripli cerchi e le stelle a cinque punte del mago che pratica l'"Alta Arte della Magia". Una lezione, che ancora molte persone devono apprendere, è che l'occultismo è fondamentalmente una materia semplice, resa complicata dall'ignoranza e dalla stupidità.
La maggior parte di noi ha già compiuto il primo atto di magia delle candele all'età di tre anni. Ricordate quei primi compleanni? Spegnere le candeline sul dolce esprimendo un desiderio? Questa abitudine dell'infanzia si basa su due importantissimi princìpi magici: la concentrazione, e l'uso di un oggetto simbolico che accentri l'attenzione. In parole povere, questo significa che se volete che succeda qualcosa dovete prima concentrarvi (per soffiare sulle candeline) e poi associare il pensiero magico (il desiderio) con l'atto simbolico (spegnere le candeline). La vostra forza di volontà fa diventare il sogno realtà. Tecniche simili vengono usate nella magia e nell' "uso delle candele".
Diversamente da molte forme di "Alta Magia", per praticare quest'arte non c'è bisogno di alcun credo particolare. Si può essere Sciiti, Cristiani, Buddisti, Musulmani, Indù, Ebrei, pagani, o niente di tutto ciò, perché nella magie delle candele si usa solo la propria forza di volontà, la capacità di desiderare, il potere della mente di far sì che qualcosa avvenga. E' comunque necessario credere in un Creatore Supremo e io mi auguro che chiunque legga questo libro creda almeno in un'entità del genere. Senza questa fede qualsiasi avvicinamento all'occultismo, e a questioni di carattere psichico, diventa inutile e inefficace.
Forse sarebbe prudente aggiungere che ciò non significhi che sia assolutamente impossibile impiegare nella magie delle candele rituali e/o preghiere di ualsiasi religione. Quando procederemo nell'argomento e inizierò a dare al lettore delle formule magiche da eseguire, si potrà definire il mio approccio "religioso", nel senso che il lettore si trova ad invocare esseri angelici. In questo libro io ho parlato di angeli perchè essi si adattano alla mia cosmologia personale ma il lettore è libero di interpretare queste immagini nei termini adeguati alle sue convinzioni. Questi esseri possono venire considerati dei pagani, personificazioni di forze naturali, santi, aspetti della propria psiche o qualsiasi altra cosa. Se il lettore vuole, può anche ignorarli completamente e rivolgersi direttamente alla Forze vitale, a Dio, o a qualsiasi altra cosa. Infatti il concetto di ferarchia angelica corrisponde a tutte queste differenti immagini, e si tratta semplicemente di simbolo su cui il discepolo si può concentrare e con cui può identificarsi durante il rito. Come ho detto precedentemente, la chiave della magie delle candele è la concentrazione, e in fondo è la mente stessa del praticante quella che agisce.
Chiunque accenda una candela per ragioni magiche cerca di liberare e utilizzare il Subconscio. Uno dei fondamenti dell'occultismo è la divisione della mente in tre livelli distinti: il Conscio, il Subconscio e il Superconscio.



Il mondo nascosto del Subconscio


In Circostanze normali, durante le ore di veglia, è attiva la parte conscia della nostra mente, che controlla le funzioni del fisico e le azioni dell'individuo. Durante il sonno, mentre il corpo si riposa e la mente si schiarisce, il Subconscio prende il sopravvento. Questo periodo di attività mentale è caratterizzato di solito da sogni, visioni e qualche volta incubi. Tutto ciò sorge dal mondo nascosto del Subconscio, dove si annidano tutte le immagini ataviche della nostra natura animale. In qualsiasi momento -- sia che siamo svegli o che dormiamo -- è attivo il Superconscio, il quale mantiene in armonia gli altri due livelli mentali. Sebbene noi facciamo esperienza sia del Conscio e del Subconscio, è raro che l'uomo incontri e riconosca il proprio Superconscio o Super io.
Nella magia il principale scopo del mago è di escludere la parte conscia della mente -- che è condizionata da idee preconcette e limitata da schemi della personalità convenzionali -- e mettersi in contatto con il Subconscio, che reagisce non alle parole ma alle immagini. Il mago sa che il Subconscio è un agente potentissimo che, quando viene liberato e controllato, può provocare dei cambiamenti nei modelli ambientali. E' il livello delle "sensazioni" psichiche e della telepatia e, una volta che sia stato liberato, può agire come un "genio della lampada", capace di far ottenere al suo padrone ciò che desidera. Tuttavia, se questo strumento veiene usato male o in maniera incontrollata, è capace di vendicarsi in maniera terribile rivolgendosi contro il suo stesso padrone e distruggendolo.
Alcuni occultisti ignorano deliberatamente il Subconscio o, come viene chiamato nei vecchi libri di occultismo, il sacro angelo custode. Non tutti mirano tanto in alto e in questo libro ci preoccuperemo solo di contattare il Subconscio. Facendo ciò il praticante di magie delle candele può far avverare i suoi desideri e le sue speranze, ottenere l'amore del suo prossimo, guarire i malati, assicurarsi aiuto finanziario e progresso lungo il sentiero della realizzazione psichica e spirituale.
E' necessario, a questo punto, aggiungere una parola di avvertimento: come tutti gli strumenti delle forze occulte, la magia è una lama a doppio taglio. Se usata per fini perversi i risultati di questo comportamento si ritorceranno contro di voi. L'effetto contrario di questi strumenti è molto più potente dell'impeto originario che li aveva mossi. Questo viene riconosciuto anche nei vecchi detti sulle maledizioni, capaci di tornare tre volte più potenti su chi le ha pronunciate. Coloro che giocano con l'occulto e la magia, di solito si scottano le dita prima di imparare a trattare seriamente la materia. Questa può essere forse una lezione crudele ma almeno lascia all'incauto principiante un ricordo che egli non dimenticherà tanto facilmente.
In questa pratica alla magie delle candele ho evitato qualsiasi rituale, incantesimo, o procedimento che possa far del male al lettore. La fiducia che ho nella sua intelligenza, buon senso e fondamentali princìpi morali, mi induce a credere non vorrà mai sfruttare la magie delle candele per scopi puramente immorali o malevoli.



Preparativi per compiere la magia

Che genere di candele usare per scopi magici? La misura e la forma non sono molto importanti. La maggior parte di coloro che praticano quest'arte cercano di regolarsi, se possono, su un tipo standard. Ciò che rende le cose molto più semplici e, in fondo, è proprio questo lo scopo della magia. Se seguirete l'esempio degli esperti non potrete sbagliare.
I libri di magia insistono spesso sulla necessità che gli oggetti siano "nuovi" e spesso si legge di maghi che portano vesti di lana "vergine" o che scrivono gli incantesimi su pergamena "vergine". Similmente, nella magie delle candele, le candele che vengono usate devono essere nuove di zecca e non dovrebbero essere state usate per alcun scopo. Mai usare, per esempio, una candela che sia stata già accesa su un tavolo da pranzo o usata come lume da notte. C'è un'ottima ragione di natura occulta per questa insistenza sulla verginità del materiale usato a scopo magico, e cioè che le vibrazioni provenienti da altre fonti contrasterebbero l'effetto dell'oggetto nell'atto di magia.
Alcuni praticanti fabbricano da sè le proprie candele; è un esercizio utilissimo perchè non solo impregna la candela delle bibrazioni personali di chi la utilizzerà ma, nell'atto di fabbricare la candela, il discepolo anima la cera con i propri pensieri e desideri. Fare candele non è tanto difficile quanto si potrebbe credere, e molti negozi di oggetti per l'artigianato e d'arte vendono la cera e le forme di cui avrete bisogno. La cera bollente (portata alla temperatura di 180° F.) viene versata in una forma adatta, e quindi lasciata solidificare. Mentre la cera è ancora fusa si può aggiungere del profumo o tintura, e quando si è raffreddata, si rimuove lo stampo lasciando una candela perfettamente formata. Tutto ciò può suonare come un'eccessiva semplificazione del processo ma in realtà questo è l'essenziale da sapere. Vale la pena fare questo sforzo in più, non solo dal punto di vista della magia ma, se coltivato, frabbricare candele può diventare un piacevole hobby.
Ora che siete in possesso delle candele dovrete decidere dove praticare la vostra magia. Non c'è bisogno di un qualche tempio elaborato -- a meno che non ne abbiate già uno -- e una qualsiasi stanza si adatterà allo scopo.

Il silenzio è essenziale


Una cosa è veramente essenziale, ed è il silenzio. La magia delle candele richiede concentrazione e non potete concentrarvi con un rumore di sottofondo che disturbi i vostri pensieri. Assicuratevi anche che la stanza sia ben ventilata, ma né troppo fredda, né troppo calda. Possono sembrare precauzioni piuttosto sciocche ma, se dovrete dedicare un'ora o più alla vostra attività occulta, un certo grado di comfort è necessario per ottenere dei buoni risultati. Non sono personalmente d'accordo con scuole del tipo "legatevi e flagellatevi", secondo cui, per ottenere qualcosa dall'occultismo, bisogna prima sottoporsi a torture fisiche. Certe pratiche innaturali non hanno niente a che fare con il vero occultismo.
Anche i vestiti non sono troppo importanti, ammesso che vi lascino libertà nei movimenti, siano puliti e comodi. Alcuni occultisti preferiscono indossare degli abiti rituali, che rappresentano l'estraneazione dal mondo esterno, altri celebrano nudi ma, personalmente, il pensiero della cera bollente che schizza qua e là mi ha sempre fatto tenere i vestiti addosso!
Durante la pratica della magia delle candele può anche essere bruciato dell'incenso, per ottenere un'atmosfera più "occulta" e per stimolare i sensi mentali e fisici. Potete combinare insieme incenso e candele, comprando o fabbricando delle candele nelle quali sia stato aggiunto dell'incenso in profumo o in grani. Io ritengo che l'incenso non sia un particolare essenziale ma è comunque un odore piacevole da avere attorno.
Uno dei momenti più importanti della magia delle candele consiste nell'oliare o preparare la candela. La ragione di questa operazione piuttosto particolare è difficile da scoprire ma, poichè è stata parte integrante di questa pratica per secoli, ben pochi ne mettono in dubbio l'importanza. (In un certo senso ciò è sbagliato, perchè se non c'è una ragione logica per compiere un determinato atto magico allora, ammesso che lasciarne cadere la pratica non danneggi il risultato finale, non ci sarebbe ragione di perpetuare una pratica obsoleta).
In questo caso sembra che lo scopo di oliare la candela sia di creare un collegamento tra essa e il mago per mezzo di un'importantissima esperienza sensoriale: il tatto. E' solo toccando che il bambino impara da piccolo a rapportarsi agli oggetti e a capire il mondo esterno. Spalmando di olio la candela, trasferirete in essa, attraverso le mani, le vostre vibrazioni e farete della candela un prolungamento del potere della vostra mente.
Nell'atto di oliarla, la candela viene considerata una specie di magnete spichico, con un polo "nord" e un polo "sud". Nell'ungere la candela il praticante deve passare il liquido sulla cera cominciando in cima, dal polo "nord", e lavorando con le mani sempre verso il basso, sino a metà della candela. Lo stesso deve poi essere ripetuto dal polo "sud", spalmando verso l'altro fino a metà.
Poichè la magie delle candele è diventata un'arte negletta in questo paese, l'allievo, per compiere questa procedura della preparazione, dovrà servirsi di oli e profumi naturali. Alcuni fornitori di oggetti occulti vendono degli speciali oli per candele con nomi esotici. La maggior parte di essa è assolutamente priva di valore e il discepolo che voglia "fare sul serio" sarà meglio che non creda a certe storie, e usi il suo buon senso e la sua inventiva per procurarsi l'olio adatto.
Mentre oliate la candela focalizzate con la mente lo scopo che vi prefiggete. Concentratevi su ciò per cui la state oliando e cercate di visualizzare il vostro desiderio nell'attimo in cui si avvera, oppure il vostro sogno, esaudito e realizzato. Nel fare ciò, proiettate inconsciamente (per mezzo del subconscio) i vostri pensieri nell'etere ed essi acquistano ali, simili ad entità viventi. Costruendo un'immagine astrale di ciò che avete desiderato è come se stendeste il programma di ciò che diventerà realtà, per mezzo dei vostri sogni.

Santo del giorno 24 aprile

San Fedele da Sigmaringen Sacerdote e martire






Marco Reyd - il futuro cappuccino fra Fedele - nato a Sigmaringen, in Germania, nel 1578, si era laureato in filosofia e in diritto all'università di Friburgo in Svizzera, e aveva intrapreso la carriera forense a Colmar in Alsazia. Accolse con entusiasmo l'invito del conte di Stotzingen, che gli affidava i figli e un gruppo di giovani perché li avviasse agli studi. Soggiornando per ben sei anni nelle diverse città dell'Italia, della Spagna e della Francia, impartì ai giovani e nobili allievi ammaestramenti che lo fecero ribattezzare col nome di "filosofo cristiano". Poi all'età di 34 anni, abbandonò ogni cosa e tornò a Friburgo, stavolta al convento dei cappuccini. Fu guardiano al convento di Weltkirchen. Dalla Congregazione di Propaganda Fide ebbe l'incarico di recarsi poi nella Rezia, in piena crisi protestante. Le conversioni furono numerose, ma attorno al santo predicatore si creò un'ondata di ostilità. Nel 1622, a Séwis, durante la predica, si udì qualche sparo. Fra Fedele portò ugualmente a termine la predica e poi si riavviò verso casa. All'improvviso gli si fecero attorno una ventina di soldati. Gli intimarono di rinnegare quanto aveva predicato poco prima e, al suo rifiuto, lo uccisero con le spade.

Lo chiamavano "l'avvocato dei poveri" perché difendeva gratuitamente coloro che non avevano denaro a sufficienza per pagarsi un avvocato. Marco Reyd - il futuro cappuccino fra Fedele - nato a Sigmaringen, in Germania, nel 1578, si era laureato brillantemente in filosofia e in diritto all'università di Friburgo in Svizzera, e aveva intrapreso la carriera forense a Colmar in Alsazia. Più portato ai severi studi filosofici che alle arringhe in tribunale, Marco Reyd accolse con entusiasmo l'invito del conte di Stotzingen, che gli affidava i figli e un gruppo di giovani promettenti perché li avviasse agli studi e alla conoscenza dei problemi del mondo contemporaneo.

Soggiornando per ben sei anni nelle diverse città dell'Italia, della Spagna e della Francia, impartì ai giovani e nobili allievi anche utili ammaestramenti che lo fecero ribattezzare col nome di "filosofo cristiano". Poi all'età di 34 anni, abbandonò ogni cosa e tornò a Friburgo, stavolta al convento dei cappuccini e indossò l'umile saio di S. Francesco. Preposto per la sua saggezza alla guida di vari conventi, mentre copriva l'incarico di guardiano al convento di Weltkirchen gli abitanti della regione ebbero modo di ammirare la sua straordinaria carità e coraggio nell'assistenza ai colpiti dalla peste.

Dalla Congregazione di Propaganda Fide ebbe l'incarico di recarsi nella Rezia, in piena crisi protestante. Le conversioni furono numerose, ma l'intolleranza di molti finì per creare attorno al santo predicatore una vera ondata di ostilità, soprattutto da parte dei contadini calvinisti del cantone svizzero dei Grigioni, scesi in guerra contro l'imperatore d'Austria. Più che scontata quindi l'accusa mossa a fra Fedele d'essere un agente al servizio dell'imperatore cattolico.

Il santo frate continuava impavido la sua missione, recandosi di città in città a tenere corsi di predicazione. "Se mi uccidono - disse ai confratelli, partendo per Séwis - accetterò con gioia la morte per amore di Nostro Signore. La riterrò una grande grazia". Era poco meno d'una profezia. A Séwis, durante la predica, si udì qualche sparo. Fra Fedele portò ugualmente a termine la predica e poi si riavviò verso casa. All'improvviso gli si fecero attorno una ventina di soldati, capeggiati da un ministro, che in seguito si sarebbe convertito. Gli intimarono di rinnegare quanto aveva predicato poco prima. "Non posso, è la fede dei vostri avi. Darei volentieri la mia vita perché voi tornaste a questa fede". Colpito pesantemente al capo, ebbe appena il tempo di pronunciare parole di perdono, prima di essere abbattuto a colpi di spada. Era il 24 aprile 1622. Fu canonizzato nel 1746 da Benedetto XIV.

fonte:santiebeati.it




martedì 23 aprile 2013

Santo del giorno 23 aprile

San Giorgio Martire di Lydda





Nonostante il suo culto sia diffuso in tutta la cristianità, la sua storia è sostanzialmente avvolta nel mistero. Nella “Passio Giorgi” si attesta il martirio di Giorgio e altri cristiani nel 303 durante l’impero di Diocleziano, a Lydda, nei pressi dell’attuale tel aviv; sul luogo del martirio sorse un’antichissima Basilica, distrutta poi da Saladino nel XII secolo, durante le Crociate. La notizia del martirio di Giorgio viene confermata da alcuni studiosi del VII secolo e da alcune epigrafi greche. Da questa “Passio”, tradotta fin da subito in decine di lingue, sappiamo che Giorgio nacque in Cappadocia nel III secolo da Geronzio e Policronia, che lo educarono cristianamente; da adulto divenne tribuno dell’armata dell’imperatore di Persia, Daciano. Nel 303 l’imperatore Diocleziano emise un editto con il quale autorizzò la persecuzione dei cristiani in tutto l’impero, in quei momenti il tribuno Giorgio dopo aver ceduto tutti i suoi beni ai poveri, strappò l’editto e proclamò pubblicamente la sua fede cristiana. Viene invitato ad abiurare e al suo rifiuto, come da prassi viene sottoposto al supplizio e giustiziato, ma riceve la visita di Gesù che le predice sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre volte la resurrezione. Qui, la fantasia degli agiografi si scatena e si raccontano episodi strabilianti, morti tremende e resurrezioni fantastiche; ciò che è sicuro sono le numerose conversioni operate da San Giorgio, quali il mago Atanasio, Anatolio e tutto i suoi soldati e l’imperatrice Alessandra; tutti seguiranno Giorgio nel martirio.

Il suo culto inizia subito dopo la morte, come testimoniano le Basiliche sorte già nel IV secolo; invece le leggende che fissano San Giorgio come cavaliere eroico risalgono al XII e XIII secolo.

fonte:santiebeati.it



lunedì 22 aprile 2013

Le radici storiche dell’occultismo

È abbastanza complicato affrontare una ricognizione storica sulle matrici antiche e medioevali dell’occultismo; e questo per una miriade di ragioni, la prima delle quali è il carattere prettamente moderno della corrente. 


L’occultismo è, infatti, un fenomeno esclusivamente legato alla modernità, alla rivoluzione industriale, come vedremo in seguito. Ovviamente, nel mondo antico e medioevale era ben radicata una forte attenzione per l’arcano, per il dominio sulla natura, ma le connotazioni acquisite da queste forme d’interesse divergono e si differenziano molto da quelle proprie all’era moderna.
È quindi importante muoversi con una certa metodologia, altrimenti il rischio è quello di ricadere in generalizzazioni affrettate, in un eclettismo che cancella la specificità storica di quanto trattato.
Nel medioevo è quindi più corretto usare il termine philosophia occulta, anziché “occultismo”, perché in rapporto alla prima, quest’ultimo è caratterizzato da un marcato sincretismo, che si spinge fino a cercare di conciliare le proprie convinzioni con quelle della scienza moderna.
Nell’antichità, invece, è altrettanto sbagliato etichettare come “occultismo” le religioni di mistero, le quali presentano una specificità che non può essere equiparata nemmeno a quel complesso di correnti raggruppate sotto il termine “esoterismo” (ricordiamo, infatti, che Aristotele per designare le dottrine riservate ai discepoli del Peripato si limitava ad usare il termine esõterikós; il neologismo “esoterismo” fu invece coniato paradossalmente dall’occultista Eliphas Lévi). Con questo, ovviamente, non si esclude una sorta di continuità oggettiva per molti degli elementi dottrinali trapassati in scuole e correnti eterogenee, ma il filo rosso della storia riguarda soltanto questi singoli fattori, e non l’integralità degli insegnamenti specifici.

Secondo Nicola Turchi, i cosiddetti “culti misterici”, altro non sono, infatti, che delle vere e proprie religioni, più specificatamente ribattezzate “religioni di mistero”, in quanto si riallacciano ad un fondatore mitico di natura divina (Dioniso, Osiride, Mithra, ecc.); comportano un’iniziazione d’ingresso segreta, un’identificazione con la vita della divinità, ma in genere non sono altro che sublimazioni di un primitivo culto agrario [1]. Niente a che vedere con tradizioni ancestrali, ma piuttosto con riti agrari. Come sia possibile vedere una sorta di “filiazione spirituale” tra queste religioni e l’occultismo o l’esoterismo moderno, dovrebbe essere spiegato da molti ricercatori contemporanei.
Le religioni di mistero non rientrano interamente nella classificazione esoterica od occultistica sancita dai capisaldi, sopra elencati; il tentativo di distillare in ogni manifestazione dello spirito delle invarianti atte a testimoniare della possibilità di un esoterismo “universalizzante”, è frutto di un acriticismo metodologico incentrato su forzature storiche. Ci guarderemo bene quindi dal rischio di commistioni azzardate e facili; e dopo aver circoscritto le caratteristiche delle religioni di mistero, incominceremo a definire anche la gnosi ed il misticismo.
I primi esempi di proto-filosofia occulta si trovano nei testi dei primi secoli dell’era cristiana, in cui si amalgamano insegnamenti di carattere misteriosofico, gnostico e teosofico. Come ricorda Pierre Deghaye, per gnosi s’intende “una conoscenza superiore che si aggiunge alle verità comuni di una Rivelazione oggettiva, o l’approfondimento di ciò che la Rivelazione rendeva possibile in virtù di una Grazia particolare” [2]. La gnosi costituisce dunque la radice di quello che sarà l’esoterismo moderno, intendendo tuttavia questo termine in un senso più generale del secondo, che è preferibile usare viceversa per quelle correnti che prenderanno avvio dal Rinascimento. Nell’etimologia il termine greco gnosis è equivalente al sanscrito Jñãna – derivando entrambi dal ceppo indoeuropeo – e designa letteralmente la “conoscenza”. Secondo la gnosi, essenziale è il conoscere che trasforma interiormente, con il cuore (simbolo dell’apprendimento spirituale), oltre che con la mente. La teosofia è invece un’elaborazione della gnosi, perché non si limita come quest’ultima a ricercare la superiore trasformazione spirituale del singolo, ma s’interessa anche alla natura propria di Dio, degli angeli, dell’origine soprannaturale dell’universo fisico. La mistica, infine, si distingue dalla gnosi e dalla teosofia, perché anela a trascendere subito le strutture sapienzali, le entità intermedie, per ricercare l’immediata unione con Dio. Lo gnostico invece attribuisce un valore in sé a questi livelli del mondo figurato e li elabora in una dottrina. Elementi di queste tre dottrine si trovano combinati nei testi antichi, che per primi sembrano rivelare un gusto particolare per l’occulto: essenzialmente gli Oracoli Caldaici e Sibillini, il Corpus Hermeticum, ma anche nel neoplatonismo di Porfirio, Giamblico, Proclo. Gli Oracoli Sibillini distrutti da un incendio nell’83 a.C. – raccolgono le profezie di quelle donne che oggi definiremmo “sensitive”, ma che allora erano chiamate Sibille. Gli Oracoli Caldaici, sono ancora più importanti di quelli Sibillini, perché contengono le prime forme di teurgia. Sono attribuiti a Giuliano, ritenuto da diversi studiosi il fondatore della teurgia [3], quell’insegnamento segreto che poteva esercitare un controllo costrittivo sulle divinità, fino a costringerle a materializzarsi dentro le statue.
Il Corpus Hermeticum – ormai sciolto il dilemma sulla presunta datazione della sua origine, che risale al II o III secolo dell’era cristiana – fu tradotto dal greco al latino da Marsilio Ficino nel 1463. Infine il neoplatonismo raccoglie nel III secolo d.C. le istanze spiritualiste dell’insegnamento di Platone (probabilmente di quelle che sono comunemente indicate come le sue “ dottrine non scritte ”), già con Plotino – il quale vi fonde assieme anche elementi dottrinali desunti dall’aristotelismo, dallo stoicismo, e dall’ebraismo – e successivamente con i suoi discepoli Porfirio, Giamblico, Proclo.

Anche nello stoicismo troviamo un forte interesse per la divinazione, perché le premonizioni erano considerate come prove empiriche alla teoria della predestinazione; anche se la conoscenza del futuro poteva influenzare la condotta del singolo, la divinazione riguardava soltanto eventi, che potrebbero ancora essere evitati, qualora fosse richiesta venia agli dei [4].
Nel medioevo il pensiero arabo – che aveva preservato la cultura classica dal sacco delle orde barbariche del nord – dimostrò un notevole interesse per la mistica e l’occulto, finendo per influenzare anche gli europei. Papa Silvestre II, per esempio, non faceva alcun mistero del suo interesse per l’alchimia e l’astrologia. Grazie alla civiltà araba, l’Occidente ritrovò i propri tesori perduti; nel corso del VI secolo, furono tradotti dal greco in siriaco, non solamente le opere di Aristotele, Platone e Plotino, ma anche di interesse più propriamente alchemico, astrologico, teurgico. Tra queste, il Libro delle Immagini dello Pseudotolomeo, la Picatrix, la Turba philosophorum, Il ibro della luna, I fiori d’oro [5].
Il simbolismo cristiano ha, a sua volta, contribuito a risvegliare l’interesse collettivo per l’occulto, associandolo alle fiamme dell’inferno e al peccato. Nel Liber lapidum seu de gemmis di Marbed, ci si occupa del potere magico di pietre e minerali, associandole simbolicamente ai pianeti e ai flussi degli astri.
Tutte quante queste opere segnalano l’apparire di una nuova corrente culturale, la philosophia occulta. Nel XII secolo, continuano a comparire opere dedicate alla fisiognomica, al potere terapeutico delle erbe e dei metalli, alla pneumatologia, all’astrologia ed all’alchimia: ricordiamo a questo proposito il Liber de compositione alchemiae, probabilmente il primo importante scritto sulla dottrina. Un altro importante volume, che marca ulteriormente il fenomeno della filosofia occulta, è il Secret secretorum.

Abbiamo visto che un certo interesse per l’occulto in fondo c’era sempre stato, ma constatata l’esplosione di questa moda in pieno medioevo, possiamo probabilmente rintracciarne le ragioni, da una parte nel tentativo di salvare dall’egemonia culturale del cristianesimo i residui simbolici e dottrinali delle antiche religioni di mistero. Quando una religione si afferma come egemonica in una determinata area geografica, le religioni precedenti vengono osteggiate e proibite; ma se resistono residui di credenze simboliche che ormai fanno parte dell’immaginario religioso, vengono assorbite armonicamente senza problemi dalla religione dominante. Probabilmente, i residui liturgici irremovibili delle antiche religioni di mistero sono stati amalgamati simbolicamente dal cristianesimo (per fare un esempio si può cogliere un filo rosso tra i riti agrari, il culto dionisiaco, e la resurrezione del Cristo; si tratta dello stesso sistema simbolico che rimanda al tema della vita-morte-rinascita [6]). Questi elementi simbolici originari furono trasposti nell’iconografia delle cattedrali, e sovente associati al male ed alla polarità antitetica del demonio. Chiunque si fosse interessato a questi simboli, allora, sarebbe dovuto passare dalla parte dell’Avversario e contro la Chiesa. Ecco spiegato, dunque, perché all’inizio del medioevo la philosophia occulta, acquista quella connotazione così “nera” e diabolica: si trattava di scegliere il campo con il quale schierarsi, o con l’inquisizione o con l’Anticristo.

Nel XII secolo molti trattati di magia furono influenzati dalle traduzioni in lingua spagnola da parte dell’arabo Norbar. Ma soprattutto in questo periodo si diffonde la credenza che tutte le tradizioni abbiano il loro centro d’origine in Salomone, leggendario mago a cui gli angeli avevano rivelato il segreto della Creazione. La facoltà di ottenere rivelazioni gnostiche attraverso delle entità angeliche, era denominata ars notoria. Alla padronanza di quest’arte, si crede che siano dovuti diversi trattati come il Liber secretus di cui è autore un certo Onorio. Anche la scuola domenicana contribuì (seppur marginalmente, vista l’ostilità ecclesiastica sopra ricordata) alla diffusione dell’interesse per l’alchimia e l’astrologia con i due suoi più eminenti maestri. Alberto Magno nel Sui minerali, fece velatamente riferimento a nozioni di magia ed alchimia; ma anche Tommaso d’Aquino, probabilmente influenzato dal neoplatonismo dello Pseudo-Dionigi, incominciò di nascosto a credere all’alchimia ed al potere dei corpi celesti. Un’importante figura di mecenate e protettore di maghi ed indovini fu Federico II di Svevia, alla cui corte soggiornò l’astrologo Michele Scoto, e da cui passò probabilmente anche Guido Bonatti autore del Liber astronomicus. Per quanto riguarda l’alchimia, un trattato fondamentale dell’epoca è il Rosarium philosophorum di Arnaldo da Villanova; mentre la geomanzia conosce lustro soprattutto grazie a Bartolomeo da Parma.

Nel XIV il francescano Raimondo Lullo scrisse la sua famosa Ars magna, dove teorizzava la possibilità di arrivare – mediante la riduzione di tutte le scienze a un numero limitato di elementi primi, regole e simboli – all’unità del sapere. Questo simbolismo essenziale del divino, dava origine ad una tecnica chiamata “arte combinatoria” che doveva successivamente influenzare oltre al primo Leibniz, anche Saint-Yves d’Alveydre, autore dell’ Archeometria.
Nel Rinascimento, il ritrovato interesse per il neoplatonismo della corte fiorentina – reso possibile anche dalla diminuita ostilità della Chiesa – spinse Marsilio Ficino alla traduzione dal greco al latino del Corpus hermeticum, degli Oracoli Caldaici e degli Inni Orfici. Sempre a Firenze, sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico, Pico della Mirandola dette un profondo slancio alla cristianizzazione della Qabbalah ebraica; tuttavia tutto il periodo del Rinascimento, non solo fiorentino, ma anche italiano, fu estremamente favorevole allo sviluppo dell’esoterismo e dell’occultismo (ancora non efficacemente definiti e distinti, come sarà invece fatto in epoca moderna). Anche gli ordini monastici europei contribuirono allo studio dell’astrologia e della magia; in Italia, per i sacerdoti i tempi non erano ancora maturi come conferma la vicenda di Giordano Bruno: la Chiesa era soltanto leggermente più tollerante verso i protetti dei principi. Anche Pico della Mirandola fu inizialmente condannato, soltanto l’intervento di Lorenzo il Magnifico riuscì a salvarlo dall’accusa di eresia.

Ma in Europa la lontananza dal potere della Chiesa Cattolica Romana mitigò la furia dell’inquisizione: Jean Ganivet scrisse nel 1431 un trattato in cui associava medicina e astrologia, l’Amicus medicorum. [7] Nel XV secolo intanto si produsse un importante allontanamento della cosmologia (la scienza delle cause seconde) dalla teologia, che invece si orientò decisamente verso la Scolastica. La cosmologia subì allora un’ulteriore evoluzione, ramificandosi in due tronconi. Da una parte s’indirizzò verso lo sperimentalismo, che avrebbe successivamente condotto alla scienza moderna; dall’altro, alla fine del secolo, divenne oggetto di attenzioni da parte degli eruditi che si appropriarono dell’eredità medioevale sulla magia, l’ermetismo alessandrino, la Qabbalah giudaica.
Tra questi umanisti eruditi del XVI secolo ricordiamo Ludovico Lazzarelli, Francois Foix de Candale, Francesco Patrizi, tutti e tre appartenenti alla corrente dell’ermetismo neo-alessandrino; ed ancora Trithemius, Henri Cornelius Agrippa, il già citato Bruno, Franciscus Gregorius Venetus [8]. Trithemius si dedicò prevalentemente alla magia ed all’astrologia, e può essere considerato senz’altro come una delle figure di punta della philosophia occulta. Cornelius Agrippa nel 1510 scrisse un’opera fondamentale per la filosofia occulta, così come per il futuro occultismo, il De occulta philosophia; con Agrippa s’inaugura quella tendenza al sincretismo che sarà caratteristica dell’occultismo moderno. Un’altra celeberrima opera è la Magia naturalis, scritta da Giovanni Battista della Porta nel 1558.
Intanto tra il XVI ed il XVII secolo, nei paesi germanici compaiono tre nuove correnti, che possiamo sicuramente annoverare e registrare come appartenenti all’esoterismo: il paracelsismo, la teosofia, il rosicrucismo. È anche importante notare che in questo periodo l’alchimia interessa tanto i cultori della philosophia occulta che i primi esoteristi: essa è una sorta d’interregno fra i due campi complementari. Soltanto successivamente l’alchimia sarà rivendicata con più vigore come dottrina esoterica, mentre la filosofia occulta si orienterà decisamente sull’astrologia.
Ad assegnare l’astrologia al dominio della philosophia occulta, contribuisce, inoltre, nel 1666 il suo bandimento dalle scienze ufficiali; ma quest’evento concorre ad imprigionare la disciplina negli angusti confini della divinazione, rimuovendo da essa qualsiasi ambizione speculativa. Nel 1791 esce a Londra il primo mensile specializzato nella filosofia occulta. Intanto, la corrente teosofica si sviluppa grazie alla ricezione dell’insegnamento boehmiano, all’influenza di Swedenborg, all’impatto di una seconda ondata di autori come Martinez de Pasqually, Louis-Claude de Saint-Martin, Friedrich Christoph Oetinger. Inizia l’era industriale, in cui prenderà campo l’occultismo moderno, successore ed epigone della philosophia occulta medievale.
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Note

1. Cfr, N. Turchi, Storia delle Religioni, ed. Sansoni. (torna al testo)
2. Cfr. Pierre Deghaye, La Doctrine ésotérique de Zinzendorf, Parigi, Klincksieck (torna al testo)
3. Cfr. G. Luck, Arcana Mundi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, ed. (torna al testo)
4. Cfr. G. Luck, Arcana Mundi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, ed. (torna al testo)
5. Cfr. Enciclopedia delle Religioni, (diretta da Mircea Eliade) vol 3 ; alla voce “Occultismo”. Jaca Book. (torna al testo)
6. A questo proposito si può consultare l’opera di Mircea Eliade, che insiste particolarmente sul simbolismo della vegetazione. (torna al testo)
7. Cfr. Enciclopedia delle Religioni, (diretta da Mircea Eliade) vol 3 ; alla voce “Occultismo”. Jaca Book (torna al testo)
8. Cfr. Antoine Faivre, Accèss de l’ésoterisme occidental, 2 voll. ed Gallimard (torna al testo)

Bibliografia essenziale

N. Turchi, Storia delle Religioni, ed. Sansoni.
Pierre Deghaye, La Doctrine ésotérique de Zinzendorf, Parigi, Klincksieck
G. Luck, Arcana Mundi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, ed.
Enciclopedia delle Religioni, (diretta da Mircea Eliade) vol 3 ; Jaca Book
A. Faivre, Accèss de l’ésotérisme occidental, 2 voll. ed Gallimard 

Fonte: http://www.esonet.it/

Santo del giorno 22 aprile



Sant' Alessandra e compagni Martiri a Nicomedia

ALESSANDRA, APOLLO, ISACCO, CODRATO

Il nome Alessandra è il femminile di Alessandro; deriva dal greco ‘Aléxandros’ e significa “protettrice degli uomini”.
Il nome è sempre stato usato fin dall’antichità e della versione maschile si ricordano due re dell’Epiro, tre re di Macedonia, due re di Siria, un imperatore romano, otto papi, oltre 40 santi, tre re di Scozia, tre imperatori di Russia, ecc.
Nella versione femminile, il nome Alessandra è stato portato oltre che da sei fra regine e imperatrici, anche da cinque cristiane martiri, curiosamente sempre inserite in altrettanti gruppi di martiri.
Il più noto dei quali è quello di Amiso (Alessandra, Claudia, Eufrasia, Matrona, Giuliana, Eufemia e Teodosia) celebrate il 20 marzo; poi c’è il gruppo delle martiri di Ankara (Tecusa, Giulitta e altre) celebrate il 18 maggio; poi c’è il gruppo di Ancira, il gruppo di Antiochia e infine il gruppo di Nicomedia di cui parliamo in queste note.
Bisogna dire che per quanto poco noto, il gruppo dei martiri di Nicomedia, composto da Alessandra, Apollo, Isacio (Isacco) e Codrato (Crotato) è menzionato da un numero rilevante di fonti agiografiche, sono ben 11 i Martirologi, Sinassari, Menologi, orientali ed occidentali che ne parlano; si evita qui di elencarli tutti.
Secondo una ‘passio’ armena, connessa al ciclo delle storie di s. Giorgio martire, Alessandra, ritenuta moglie leggendaria di Diocleziano, a volte di Daziano re persiano, per aver difeso e perorato con eccessivo zelo la causa dei cristiani, perseguitati per la loro fede, finì per incorrere nelle ire dell’imperatore, il quale dopo averla percossa e torturata di sua mano, la fece decapitare il 18 aprile del 303, primo anno della sua violenta e sanguinaria persecuzione.
Uguale sorte subirono nei giorni seguenti, Apollo, Isacco e Codrato, probabilmente domestici o funzionari di Alessandra; sebbene fossero legati da vincoli di varia natura con la Casa imperiale, non fu risparmiato loro il tormento della fame e infine la decapitazione.
Le condanne furono eseguite a Nicomedia in Bitinia, dove Diocleziano aveva stabilito la sua residenza imperiale.
I Sinassari orientali affermano che essi si erano convertiti al cristianesimo, considerando fra loro il coraggio con cui il martire s. Giorgio di Lydda, loro contemporaneo, aveva affrontato il martirio in Palestina.
La memoria dei martiri sopra menzionati, è celebrata secondo i vari testi in date diverse, dove il 21 e dove il 22 aprile; le successive aggiunte o presunte precisazioni, sui luoghi e sui fatti della vita e del martirio dei suddetti santi, si colorarono di leggenda e di mancanza di fondamenti storici.
 

domenica 21 aprile 2013

Santo del Giorno 21 aprile


Sant' Anselmo d'Aosta Vescovo e dottore della Chiesa



Il celeberrimo Sant'Anselmo è una tra le più grandi glorie del Piemonte e della Valle d'Aosta, essendo nato verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese. I suoi genitori erano nobili e ricchi: sua madre Ermemberga era una perfetta madre di famiglia, mentre suo padre Gandolfo viveva immerso nei suoi impegni secolari. Anselmo sin dalla sua infanzia sognò di poter raggiungere Dio e nella sua semplicità ipotizzava che risiedesse sulla sommità delle montagne. Già avido di sapere, fu affidato ad un parente per un'accurata educazione, ma non essendo stato compreso dal brutale maestro cadde in una terribile crisi d'ipocondria. Per guarirlo occorsero tutto il tatto e l'amorevolezza della mamma, la quale finalmente lo affidò poi ai benedettini d'Aosta. All'età di quindici anni Anselmo iniziò a sentire il desiderio di farsi monaco, ma il padre non ne volle sapere preferendo farlo erede dei suoi averi. Le attrattive del mondo e le passioni prevalsero allora sul giovane, specialmente dopo la morte della madre. Il padre, che morì poi monaco, lo prese in tale avversione che Anselmo decise di abbandonare la famiglia e la patria in compagnia di un servo.
Dopo tre anni trascorsi tra la Borgogna e la Francia centrale, Anselmo si recò ad Avranches, in Normandia, ove venne a conoscenza dell'abbazia del Bec e della sua scuola, fondata nel 1034. Vi si recò per conoscere il priore, Lanfranco di Pavia, e restare presso di lui, come tanti altri chierici attratti dalla fama del suo sapere. I progressi nello studio furono tanto sorprendenti che lo stesso Lanfranco prese a prediligerlo ed addirittura a farsi coadiuvare da lui nell'insegnamento. In tale contesto Anselmo sentì rinascere in sé il desiderio di vestire l'abito monacale. Avrebbe però altri posti dove poter sfoggiare la sua sapienza senza dover competere con il maestro Lanfranco, ma non trovando valide alternative nel 1060 entrò nel seminario benedettino del Bec. Dopo soli tre anni di regolare osservanza meritò di succedere a Lanfranco nella carica di priore e di direttore della scuola, visto che quest'ultimo era stato destinato a governare l'abbazia di Saint'Etienne-de-Caen. Nonostante il moltiplicarsi delle responsabilità, Anselmo non trascurò di dedicarsi sempre più a Dio ed allo studio, preparandosi così a risolvere le più oscure questioni rimaste sino ad allora insolute. Non bastandogli le ore diurne per approfondire le Scritture ed i Padri della Chiesa, egli soleva trascorrere parte della notte in preghiera e correggendo manoscritti. Ci si può fare un'idea del suo insegnamento leggendo gli opuscoli ed i dialoghi da lui lasciati, alcuni dei quali sono veri e propri piccoli capolavori pedagogici e dogmatici.
Sant'Anselmo fu indubbiamente un grande speculativo, ma anche un grande direttore di anime. La fama del suo monastero si sparse ovunque ed attirò un'élite avida di scienza e di perfezione religiosa. Egli se ne occupava in prima persona con cura speciale. Molte delle sue 447 lettere mostrano l'arte che possedeva per guadagnare i cuori, adattandosi all'età di ciascuno e puntando sull'affabilità dei modi. Alla morte dell'abate Herluin, il 26 agosto 1078 i confratelli all'unanimità designarono Anselmo a succedergli. L'acutezza dell'intelligenza, la straordinaria dolcezza di carattere e la santità della vita gli meritarono un immenso ascendente tanto nel monastero quanto fuori. Intraprese relazioni con il maestro Lanfranco, nominato arcivescovo di Canterbury nel 1070, e collaborò all'organizzazione di alcuni monasteri inglesi: ciò gli permise inoltre di farsi conoscere dalla nobiltà del paese ed apprezzare dalla corte di Londra.
Nel 1076 Anselmo pubblicò il “Monologion” per soddisfare il desiderio dei monaci di meditare sull'essenza divina. Questa sua prima opera si rivelò un capolavoro per la densità e lucidità di pensiero circa l'esistenza di Dio, i suoi attributi e la Trinità. Ad essa seguì il “Proslogion”, più celebre della precedente per l'assai discusso argomento che escogitò a dimostrazione dell'esistenza dell'Essere supremo, in sostituzione dei lunghi e noiosi ragionamenti che aveva esposto nel “Monologion”. “Dio è l'essere di cui non si può pensare il maggiore; il concetto di tale essere è nella nostra mente, ma tale essere deve esistere anche nella realtà, fuori della nostra mente, perché, se esistesse solo nella mente, se ne potrebbe pensare un altro maggiore, uno, cioè, che esistesse non solo nella mente, ma anche nella realtà fuori di essa”.
La fama di Anselmo si diffuse ancora di più in tutta Europa. Era talmente venerato e amato in Inghilterra che il 6 marzo 1093, in seguito alle pressioni dei vescovi, dei signori e di tutto il popolo, fu eletto dal re Guglielmo II il Rosso arcivescovo di Canterbury, sede ormai vacante dalla morte di Lanfranco avvenuta nel 1089. La sua resistenza fu tenace ma inutile ed in riferimento alle difficoltà d'intesa tra il re e il primate affermò con i vescovi ed i nobili che l'accompagnavano: “Voi volete soggiogare insieme un toro non domo e una povera pecora. Il toro trascinerà la pecora tra i rovi e la farà a pezzi senza che sia servita a nulla. La vostra gioia si muterà in tristezza. Vedrete la chiesa di Canterbury ricadere nella vedovanza vivente il suo pastore. Nessuno di voi oserà resistere dopo di me e il re vi calpesterà a piacimento”.
La situazione della Chiesa inglese era effettivamente molto triste in quel periodo a causa della simonia, della decadenza dei costumi e della violazione della libertà religiosa da parte del re. Sant'Anselmo tentò di rimediare a tutto ciò, nella scia della riforma adottata da San Gregorio VII. Non destò quindi meraviglia se, nel 1095, scoppiò tra l'autorità secolare e quella religiosa un aspro conflitto circa il riconoscimento del pontefice Urbano II. Nulla convinse l'arcivescovo a recedere dal suo proposito e, dopo molte difficoltà, nel 1097 poté recarsi a Roma per consultare il papa stesso. Questi lo ricevette con grandi manifestazioni di stima e nel 1098 lo invitò al Concilio di Bari, convocato per ricondurre all'unità della Chiesa gli aderenti allo scisma consumatosi nel 1054 tra Oriente ed Occidente. Nelle questioni discusse Sant'Anselmo apparve come il teologo dei latini, confutando vittoriosamente le obiezioni degli avversari contro la processione dello Spirito Santo da parte di entrambe la altre persone della Santissima Trinità. Nel 1099 prese ancora parte al sinodo di Roma, in cui furono ribaditi i decreti contro la simonia, il concubinato dei chierici e la reinvestitura laica. Partì poi per Lione, ove fu però costretto a trattenersi poiché il re non lo autorizzava a tornare alla sua sede. In Italia aveva completato il suo grande trattato sui “Motivi dell'Incarnazione”, mentre a Lione ne ultimò un altro “Sulla nascita verginale di Cristo e il peccato originale”.
Nel 1110 Enrico Beauclerc successe al fratello Guglielmo sul trono inglese e, desiderando avere l'arcivescovo di Canterbury tra i suoi sostenitori, lo invitò a ritornare. Il nuovo sovrano non aveva però alcuna intenzione di rinunciare a spadroneggiare sulla Chiesa, motivo per cui nel 1103 Anselmo, inflessibile nella difesa dei suoi diritti, dovette una seconda volta andare in esilio a Roma. Dopo lunghe trattative con il nuovo papa Pasquale II, il sovrano rinunciò infine all'investitura dei feudi ecclesiastici, accontentandosi solo dell'omaggio. Nel 1106 il primate poté così ritornare nella sua sede e dedicare all'intenso lavoro pastorale gli ultimi anni della sua vita. Non potendo più camminare, si faceva quotidianamente trasportare in chiesa per assistere alla Messa. Sul letto di morte provò solo il rimpianto di non aver avuto tempo sufficiente per poter chiarire il problema dell'origine dell'anima. Sant'Anselmo morì il 21 aprile 1109 a Canterbury e fu sepolto nella celebre cattedrale. Il pontefice Alessandro III nel 1163 concesse all'arcivescovo Tommaso Becket, di procedere all'“elevazione” del corpo del suo predecessore, atto che a quel tempo corrispondeva a tutti gli effetti ad un'odierna canonizzazione. Sant'Anselmo d'Aosta fu infine annoverato tra i Dottori della Chiesa da Clemente XI l'8 febbraio 1720. Il Martyrologium ROmanum ed il calendario liturgico della Chiesa universale commemorano il santo nell'anniversario della nascita al cielo. Aosta, sua città natale, ha dedicato la strada principale del centro storico alla memoria del suo figlio più celebre.



 

La Numerologia è un incredibile strumento in grado di decifrare l’uomo, i suoi meccanismi profondi, i suoi cicli personali.