Una affermazione della numerologia avanzata da alcuni praticanti conclude che, dopo osservazioni empiriche e investigazioni, attraverso lo studio dei numeri l'uomo potrà scoprire aspetti segreti di sé stesso e dell'universo.

venerdì 31 maggio 2013

Santo del giorno 31 maggio


Visitazione della Beata Vergine Maria

Festa del 'Magnificat', la Visitazione prolunga ed espande la gioia messianica della salvezza. Maria, arca della nuova alleanza, è 'teofora' e viene salutata da Elisabetta come Madre del Signore. La Visitazione è l'incontro fra la giovane madre, Maria, l'ancella del Signore, e l'anziana Elisabetta simbolo degli aspettanti di Israele. La premura affettuosa di Maria, con il suo cammino frettoloso, esprime insieme al gesto di carità anche l'annunzio che i tempi si sono compiuti. Giovanni che sussulta nel grembo materno inizia già la sua missione di Precursore. Il calendario liturgico tiene conto della narrazione evangelica che colloca la Visitazione entro i tre mesi fra l'Annunciazione e al nascita del Battista. (Mess. Rom.)
Martirologio Romano: Festa della Visitazione della Beata Vergine Maria, quando venne da Elisabetta sua parente, che nella vecchiaia aveva concepito un figlio, e la salutò. Nel gioioso incontro tra le due future madri, il Redentore che veniva santificò il suo precursore già nel grembo e Maria, rispondendo al saluto di Elisabetta ed esultando nello Spirito, magnificò il Signore con il cantico di lode.







Dopo l'annuncio dell'Angelo, Maria si mette in viaggio frettolosamente" dice S. Luca) per far visita alla cugina Elisabetta e prestarle servizio. Aggregandosi probabilmente ad una carovana di pellegrini che si recano a Gerusalemme, attraversa la Samaria e raggiunge Ain-Karim, in Giudea, dove abita la famiglia di Zaccaria. E’ facile immaginare quali sentimenti pervadano il suo animo alla meditazione del mistero annunciatole dall'angelo. Sono sentimenti di umile riconoscenza verso la grandezza e la bontà di Dio, che Maria esprimerà alla presenza della cugina con l'inno del Magnificat, l'espressione "dell'amore gioioso che canta e loda l'amato" (S. Bernardino da Siena): "La mia anima esalta il Signore, e trasale di gioia il mio spirito...".
La presenza del Verbo incarnato in Maria è causa di grazia per Elisabetta che, ispirata, avverte i grandi misteri operanti nella giovane cugina, la sua dignità di Madre di Dio, la sua fede nella parola divina e la santificazione del precursore, che esulta di gioia nel seno della madre. Maria rimane presso Elisabetta fino alla nascita di Giovanni Battista, attendendo probabilmente altri otto giorni per il rito dell'imposizione del nome. Accettando questo computo del periodo trascorso presso la cugina Elisabetta, la festa della Visitazione, di origine francescana (i frati minori la celebravano già nel 1263), veniva celebrata il 2 luglio, cioè al termine della visita di Maria. Sarebbe stato più logico collocarne la memoria dopo il 25 marzo, festa dell'Annunciazione, ma si volle evitare che cadesse nel periodo quaresimale.
La festa venne poi estesa a,tutta la Chiesa latina da papa Urbano VI per propiziare con la intercessione di Maria la pace e l'unità dei cristiani divisi dal grande scisma di Occidente. Il sinodo di Basilea, nella sessione del 10 luglio 1441, confermò la festività della Visitazione, dapprima non accettata dagli Stati che parteggiavano per l'antipapa.
L'attuale calendario liturgico, non tenendo conto della cronologia suggerita dall'episodio evangelico, ha abbandonato la data tradizionale del 2 luglio (anticamente la Visitazione veniva commemorata anche in altre date) per fissarne la memoria all'ultimo giorno di maggio, quale coronamento del mese che la devozione popolare consacra al culto particolare della Vergine.
"Nell'Incarnazione - commentava S. Francesco di Sales - Maria si umilia confessando di essere la serva del Signore... Ma Maria non si indugia ad umiliarsi davanti a Dio perchè sa che carità e umiltà non sono perfette se non passano da Dio al prossimo. Non è possibile amare Dio che non vediamo, se non amiamo gli uomini che vediamo. Questa parte si compie nella Visitazione".

 





I Sigilli parte 2

 E' una figurazione composta da due triangoli equilateri sovrapposti, uno orientato con l'apice verso l'alto ed uno verso il basso, in modo che l'insieme costituisca una sorta di stella a sei punte (“Stella di Salomone”).
Il sigillo di re Salomone - sigillo, in quanto la tradizione afferma che fosse stato usato dal mitico sovrano israelita per trattenere i demoni, nella costruzione del Tempio di Gerusalemme - è senza dubbio una delle rappresentazioni simboliche più note e di valenza universale.
Peraltro i sigilli (“sphraghis” in greco, da cui il nome di sfragistica della scienza che li studia), sono considerati le rappresentazioni più antiche di valore simbolico delle civiltà.
I primi sigilli si ritrovano nella cultura mesopotamica sotto forma di scrittura cuneiforme, ed in quella egizia.
Nella tradizione greco-romana si ricorreva ad anelli con sigilli per dimostrare l'autenticità di uno scritto, diventando in tal modo il segno essenziale della legalità di un atto pubblico o privato che fosse stato, e dell'identità di chi lo sottoscriveva.
Ben nota è la tradizione biblica dell'”Apocalisse” di Giovanni, in cui compare un libro suggellato da sette sigilli.
Il valore simbolico del concetto di sigillo si ritrova anche in espressioni contemporanee d'uso comune: “apporre il proprio sigillo su una cosa” (prenderne sostanzialmente possesso, o garantirla come autentica), oppure “sigillare le labbra” (tacere o suggellare un segreto, un accordo privato).
Generalmente il Sigillo di Salomone rappresenta (o raffigura) nella tradizione occultista occidentale generalmente l'universo, il macrocosmo, nelle sue componenti elementari: aria, acqua, terra e fuoco, elementi costituitivi del cosmo raffigurati dai quattro triangoli che la figura forma ai punti cardinali della rappresentazione grafica.
E' altresì usato come pentacolo universale nelle operazioni di magia pratica come simbolo esorcistico ed apotropaico, o al contrario evocativo, secondo il cerimoniale impiegato.
La sua raffigurazione è antichissima. Alcune sue incisioni, reperite nell'area mediorientale, risalgono al 2500 - 2000 avanti Cristo, tanto che è stato assunto per secoli come simbolo dell'unità politica delle tribù giudaiche, ed anche ora è adottato come stemma ufficiale dello Stato di Israele.
La tradizione ebraica sostiene che la figura fosse stata ideata da re Salomone, ma la sua presenza è anteriore di secoli dal presunto periodo in cui visse il mitico sovrano.
Un sovrano israelita di Shelomoh avrebbe retto le sorti politiche delle tribù ebraiche presumibilmente dal 960 al 930 avanti Cristo, quantunque la sua identità storica sia messa ancora in discussione da numerosi storici ed archeologi.
Sarebbe stato figlio di re Davide e di Betsabea, e appena salito al trono avrebbe cercato di pacificare le posizioni conflittuali tra le popolazioni fenicie e la potenza egiziana ed avrebbe riorganizzato l'esercito israelita, edato impulso all'economia del suo popolo con l'estensione del commercio verso i popoli dell'estremo oriente e dell'Africa orientale, facendo delle rozze e rissose tribù del deserto della Giudea un popolo unito e potente stringendo rapporti di alleanza con il favoloso regno della regina nera di Saba, della quale si sarebbe invaghito e quindi unito.
Soprattutto, a re Shelomoh è legata la tradizione della costruzione del primo Tempio di Gerusalemme e che fosse stato un gran mago, anzi che fosse stato l'ideatore stesso della magia evocatoria, con il cui impiego avrebbe portato a termine la costruzione dell'immenso tempio gerosolimitano.
Leggende radicate ed antichissime dicono che tenesse al dito un anello, con inciso appunto l'esagramma (sei elementi), dal quale avrebbe ricevuto forza e potere sui demoni.
Lo stesso sigillo sarebbe comparso nelle sue insegne regali, dal quale avrebbe ottenuto invincibilità durante le battaglie sostenute contro i suoi numerosissimi nemici

giovedì 30 maggio 2013

I Sigilli

Dal Blog di Roberto Zamperini
Si tratta di un argomento di grande attualità, perché, nonostante il propagandato materialismo di questa società, gruppi di potere occulti non si fanno alcuno scrupolo nel produrre sigilli per meglio dominare le loro vittime. Non ne parlo oltre, per motivi di sicurezza personale …
Intanto, che significa SIGILLO? Viene, tanto per cambiare, da Latino sigillum, diminutivo di signum. Sigillo sta per piccolo segno, quasi una firma, ma standardizzata, sempre la stessa. Un segno che ci rappresenta, che dice: “Questo l’ho fatto io!”
SIGILLI  MATERIALI E SACERDOTALI. La traduzione in Italiano di queste due parole latine (signumsigillum) mi sembra assolutamente superflua, essendo praticamente identiche a quelle italiane. L’uso dei sigilli è antichissimo, come si vede dall’immagine tratta da WIKIPEDIA (fotografo Jastrow) che mostra due magnifici sigilli sumerici.
Questi sono, come è chiaro, dei sigilli materiali, ma a noi quelli che interessano sono quelli fatti con certe tecniche speciali di energia sottile. Ehi, Zamperini, ma di che parli? Non esistono i sigilli sottili! Davvero? E cos’è allora un sigillo sacramentale? Dice WIKI, a questo proposito, che si tratta di un vincolo di segretezza assoluta, a cui il diritto canonico assoggetta i sacerdoti, per quanto riguarda qualunque informazione appresa nel corso del sacramento della Confessione o in situazioni analoghe. Ecco dunque un tipo di sigillo tutt’altro che materiale!
SIGILLI MAGICI. Ma quelli che ci interessano non sono neppure i sigilli sacramentali. Passiamo allora ad un’altra categoria: i sigilli magici. Cos’è un sigillo magico? Potremmo definirlo come un oggetto che ha certe proprietà magiche, come  quello a destra che, come dice la pubblicità, è un “Antico e potente pentacolo magico Creato e Confezionato Secondo le Più Antiche Tradizioni su Due Strati di Pesante Pergamena e Protetto da Custodia. Nota: nell’Ordine Specificare se è per Portare nel Portamonete oppure per Farlo Rimanere Permanente in Casa“. Mi sembra un’ottima definizione, anche se tengo per me il giudizio sull’efficacia ultima di questo sigillo magico. Comunque, se proprio vi scappa e non potete farne a meno, lo potrete ordinare QUI.
SIGILLI SOTTILI. Ma anche questo non è il tipo di sigillo sottile che a noi interessa. E dunque, cos’è un sigillo sottile? Potremmo definirlo come
1) un oggetto sottile in grado di produrre certi effetti nel soggetto cui è stato destinato.
Va bene, ma allora cosa NON è un sigillo sottile? Per esempio: se io amo molto una persona e, vuoi con la concentrazione mentale, vuoi con la preghiera, mi applico per generare uno stato di benessere e di salute in questa persona, per aiutarlo, per facilitarne la guarigione, il benessere, ho generato un sigillo sottile? E’ evidente che dobbiamo esplorare meglio quegli “effetti sottili” generati dal sigillo. Che tipo di effetti? Completiamo la definizione in questo modo:
2) un sigillo sottile – per essere definito tale – deve comportare
a) un vantaggio per chi l’ha creato (che d’ora in poi chiameremo sigillatore, che può essere sia una singola persona, sia una organizzazione composta di molte o anche moltissime persone)
b) e una qualche forma di costrizione, di violenza, di sopraffazione, di sfruttamento,  - generalmente subdoli, occulti, nascosti – in chi subisce il sigillo (che d’ora in poi chiameremo sigillato).

Insomma: il sigillato è, il più delle volte, assolutamente ignaro di esserlo. Come vedremo più avanti, la consapevolezza da parte del sigillato è l’arma letale contro i sigilli! Ecco perché i sigillatori fanno di tutto perché il loro sporco lavoro sia nascosto e le loro vittime siano inconsapevoli di esso!
Quando il sigillato diventa consapevole del sopruso sottile di cui è vittima, la sua battaglia è già vinta per il 50%! Come diceva qualcuno: se vuoi evadere, devi, prima di tutto, essere consapevole della tua prigione.
Prima di chiudere l’argomento: si badi che il vantaggio per il sigillatore - di cui parlavo sopra – è solo e soltanto illusorio, perché il karma (chiamatelo come volete: punizione divina o altro) comunque lo colpirà, magari non istantaneamente. Una sana ed egoistica politica sottile vieta sempre di lavorare con i sigilli, perché, prima o poi, pagheremmo ben più di quanto ci hanno fatto illusoriamente guadagnare.
E’ evidente che l’esempio del malato, per la salute del quale ci stiamo concentrando, non è un sigillo, ma piuttosto un forma-pensiero positiva. A questo punto, non possiamo non chiederci quale sia la differenza tra un sigillo sottile e una forma-pensiero. Diciamo che un sigillo sottile può essere pensato come una forma-pensiero negativa, dunque non c’è alcuna differenza, almeno in via teorica, tra sigillo sottile e forma-pensiero negativa.
Ma allora che differenza c’è tra un sigillo e una forma-pensiero positiva? Possiamo affrontare la cosa dal punto di vista del sigillato, perché credo che così si capisca meglio:
a) Una forma-pensiero positiva può essere percepita dal sigillato  o da una terza persona come una sorta di accumulatore di energia sottile che lo accompagna. Un’energia pulita e positiva. Se volete, come un piccolo servizievole aiutante che sorregge il malato (o lo studente che deve sostenere un esame, il lavoratore che cerca un nuovo lavoro, l’imprenditore che vuole intraprendere un nuovo campo d’attività o espandere i suoi affari, eccetera). Conoscete la Floriterapia di Bach? Bene, ecco un esempio potente ed efficace di quello che sto dicendo. In realtà, ogni rimedio vibrazionale può essere pensato anche come una forma-pensiero positiva, anche se in effetti è molto di più di questo. Non ne parlo oltre, poiché si potrebbe scrivere un libro, magari neppure troppo piccolo!, solo su quest’argomento.
Si comprende facilmente che la differenza sostanziale tra una forma-pensiero positiva e un sigillo non sta nella tecnica di costruzione, quanto piuttosto nell’obiettivo che il suo costruttore si prefigge.
Dico solo di sfuggita che tutti noi continuamente creiamo inconsapevolmente forme-pensiero, sia positive, sia negative. Per l’esattezza dovremmo pensare al sigillo come al frutto di una sorta di tecnologia sottile malevola, consapevole e premeditata.
b) Una forma-pensiero negativa o meglio un sigillo sottile sono percepibili dal sigillato o da una terza persona come una nuvola densa di congestione.  C’è da dire che, in genere, il sigillato non è affatto consapevole e, soprattutto quando il sigillatore è molto bravo, la percezione della congestione – anche in persone esperte – può non essere immediata, perché, come vedremo, il sigillo può essere stato mimetizzato da forma-pensiero positiva. Si tratta, fortunatamente, di casi molto rari, come rari sono i maestri neri molto bravi in grado di fare ciò. Ne so qualcosa, essendo stato vittima di un’operazione di questo tipo.
E’ quindi superfluo sottolineare che, nel 99% dei casi o forse nel 99,99% dei casi, i sigillati non sono affatto in grado di percepire i sigilli con cui sono stai fatti vittime. Al punto che, essendo a volte il sigillo diventato quasi parte indissolubile della psiche del sigillato, non è affatto infrequente che l’azione del “disigillamento” (neologismo da me inventato che sta per: togliere, eliminare un sigillo) da parte di una terza persona, incontri la più fiera resistenza da parte del sigillato, che durante quell’operazione può provare sgradevoli sensazioni, a volte persino dolore. Un po’ come se il sigillo fosse ormai parte del suo “inconscio” e la sua rimozione generi un forte rifiuto, come se il soggetto sentisse di correre il rischio di essere privato di una parte essenziale del suo essere (come se gli si volesse tagliare una mano, per capirci!).
Tanto per anticipare cose che dirò meglio più oltre, non è impossibile che il sigillo sia stato progettato in modo tale, proprio da generare la difesa automatica da parte della vittima. Questo è un caso comunissimo: la vittima che difende o adora il suo persecutore e l’azione di sfruttamento che quello ha messo in essere. Non posso dilungarmi troppo su questo argomento ma, come diceva un tale 2000 anni fa, chi ha orecchie intenda. Chi non orecchie, non rompa le scatole.

COME SI DISTINGUE UNA FORMA-PENSIERO POSITIVA DA UN SIGILLO (O DA UNA FORMA-PENSIERO NEGATIVA?)

Con il solito vecchio e sempre efficace metodo TEV: una forma-pensiero positiva accresce la nostra energia, una negativa la diminuisce. Si tratta di un test facilissimo da eseguire, anche se non lo è per chi non ha la percezione dell’energia sottile. In tal caso, consiglio gli ottimi test di Kiniesiologia.

COME SI CREA UN SIGILLO SOTTILE?

Il punto centrale da comprendere è il seguente:
per generare un sigillo occorre energia (sottile, ovviamente!)
Sì, d’accordo, ma, dove la si trova questa energia?
A) IL CASO PIU’ FREQUENTE: L’energia necessaria per la costruzione del sigillo può essere accumulata dal sigillatore in una base fisica. Ecco degli esempi:
  1. Potrebbe essere un oggetto qualsiasi, ad esempio un’immagine, simile, per capirci, a quella che vedete su questa pagina. (Non vi preoccupate: quella è assolutamente innocua!) L’accumulazione energetica viene fatta nell’immagine stessa e, di tanto in tanto, ripetuta e rafforzata.
  2. Potrebbe essere un suono, un mantra, un elenco di parole dotate o non dotate di senso, un giuramento, una formula. Anche se potrebbe sembrare il contrario, questo è molto più raro di quanto si immagini, perché è cosa difficile da realizzare per il sigillatore. Comunque difficile, ma non impossibile e, come vedremo più avanti, è usata abbastanza spesso in concomitanza con altre tecniche. L’accumulazione energetica viene fatta nel suono, nella frase, nel giuramento. Anche in questo caso,  l’accumulazione energetica viene, di tanto in tanto, ripetuta e rafforzata.
  3. Potrebbe essere una serie precisa di movimenti. Per esempio, almeno in via teorica, l’insieme dei movimenti che si fanno per mettere in moto un’auto, un certo ballo, eccetera. Raro.
  4. Potrebbe essere una certa musica. Frequente e abbastanza diffusa. Ma, in genere, di scarsa potenza.
Domanda: ma la base fisica, col tempo, a forza di creare sigilli, non si scarica? Certo che sì. E allora? Allora, di tanto in tanto, il sigillatore o i sigillatori devono provvedere a ricaricare la base fisica. Come? Con apposite tecniche, appositi riti. Ma questo è un altro argomento …
B) IL CASO MENO FREQUENTE (anzi, piuttosto raro, anche se tutt’altro che infrequente): L’energia necessaria per la costruzione del sigillo è prelevata dalla stessa vittima! Questo è un lavoro coi fiocchi che solo i maestri neri di grande levatura sanno fare.

Santo del giorno 30 maggio


Santa Giovanna d'Arco Vergine


Tutti hanno sentito pronunciare il suo nome, ma pochi ne conoscono seriamente la vita. Il nome di Jeanne d’Arc (Giovanna d’Arco) è più legato alla leggenda che alla santità, al mito epico che al martirio. Quest’anno si celebrano 600 anni dalla sua nascita. Fin da quando aveva tredici anni fu eletta ed investita da Dio per una missione religiosa e politica di altissima responsabilità: liberare la Francia dalla prepotenza inglese in nome di Dio.
La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma d’Occidente, durato quasi 40 anni. Quando Caterina da Siena (1347-1380) morì c’erano un Papa e un antipapa; quando Giovanna nacque, nel gennaio del 1412 (si dice il giorno dell’Epifania, ma la cronologia è incerta), c’erano un Papa e due antipapa. Insieme a questa lacerazione all’interno della Chiesa, vi erano continue lotte fratricide fra i popoli europei, la più drammatica delle quali fu la «Guerra dei cent’anni» tra Francia e Inghilterra, iniziata nel 1337 e conclusasi, con pause intermedie, nel 1453.
Guerre, carestie, pestilenze, eresie prostrarono l’Europa. Era il tempo degli incubi, dove nell’immaginario collettivo le autentiche manifestazioni mistiche si intrecciavano con le magie e le stregonerie, il mondo reale della sofferenza e della morte cruenta si sovrapponeva alle fantasie demoniache popolate di mostri e di balli macabri.
In questo clima di sopraffazione, di congiure e di usurpatori, di confusione nella Chiesa e nelle nazioni, l’analfabeta Jeanne, nata a Domrémy (oggi Domrémy-la-Pucelle), nei Vosgi, nella regione della Lorena, scrive una lettera di fuoco e di grazia il 22 marzo 1429, martedì della Settimana Santa:
«Gesù, Maria! Re d’Inghilterra e voi duca di Bedford che vi dite reggente del regno di Francia, voi Guglielmo di La Poule, conte di Suffolk, Giovanni sire di Talbot, e voi Tommaso sire di Scales, che vi dite luogotenenti del duca di Bedford, rendete giustizia al Re del cielo. Restituite alla Pulzella che qui è stata inviata da Dio, il Re del cielo, le chiavi di tutte le buone città da voi prese e violate in Francia. Ella è venuta qui da parte di Dio per implorare il sangue reale. Ella è pronta a far pace, se volete renderle giustizia, a patto che le restituiate la Francia e paghiate per averla tenuta. E fra voi, arcieri compagni di guerra e voi altri che siete sotto la città di Orléans, andatevene nel vostro paese in nome di Dio; e se non lo fate attendete notizie della Pulzella che ben presto vi vedrà in grandissime disgrazie. Re d’Inghilterra, se così non fate, io sono condottiero e in qualunque luogo attenderò in Francia le vostre genti, volenti o nolenti le caccerò via. E se non vogliono obbedire, tutte le farò uccidere; sono qui inviata da parte di Dio, Re del cielo, corpo a corpo, per espellervi da tutta quanta Francia. E se vogliono obbedire saranno nelle mie grazie. E non pensate altrimenti, perché non otterrete il regno di Francia da Dio, il Re del cielo, figlio di Santa Maria, ma l’avrà re Carlo, il vero erede, perché Dio, il Re del cielo, lo vuole […]».
Jeanne, la cui vita, consumatasi in 19 anni, fu un mistero di ineffabile gioia  e di inesplicabile dolore, era la minore dei cinque figli di Jacques d’Arc e di Isabelle Romée, agiati contadini. Nell’estate del 1425, all’età di 13 anni, nel giardino di casa, sente una voce… è quella di san Michele Arcangelo, che le dice di far sua la causa della Francia. Udrà la voce ancora molte volte e ad essa si uniranno quelle delle vergini e martiri santa Margherita D’Antiochia (275- 290) e di santa Caterina d’Alessandria (287-305). L’incalzante invito era accompagnato a quello di far consacrare Carlo di Valois (1403-1461) quale re di Francia. Giovanna fece resistenza: come poteva un’adolescente diventare un condottiero? Ma il Signore rende possibile l’umanamente impossibile.
Domrémy si trovava ai confini del regno, nella valle della Mosa che divideva la Francia dall’Impero Romano-Germanico. Gli Anglo-Borgognoni nel 1428 si impadronirono di tutte le piazze della Mosa rimaste fedeli al Delfino di Francia: Domrémy fu devastata; ciò decise il capitano di Vaucouleurs, Robert de Baudricourt (ca. 1400-1454), che in un primo tempo aveva considerato Jeanne d’Arc una pazza, di inviarla alla missione da lei richiesta: salvare Orléans; far consacrare il Re; cacciare gli Inglesi dalla Francia; liberare il duca d’Orléans.
Jeanne, che aveva fatto voto di verginità, indossati abiti maschili e tagliati i capelli, venne armata di tutto punto e sul suo stendardo venne dipinto Cristo Re, affiancato da due angeli, con le parole «Jesus-Maria». Il nome di Gesù comparirà sempre nell’intestazione delle sue lettere, sul suo anello e morirà pronunciandolo più volte a gran voce. Nell’Udienza generale del 26 gennaio 2011, incentrata proprio sulla patrona di Francia, Benedetto XVI ha così spiegato: «il Nome di Gesù, invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il centro di tutta la sua vita. Il “Mistero della carità di Giovanna d’Arco”, che aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù, e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua bella espressione: “Nostro Signore servito per primo”. Amarlo significa obbedire sempre alla sua volontà».
La Pulzella si unì ad un esercito d’appoggio che proteggeva un convoglio di approvvigionamento e riuscì ad arrivare ad Orléans dalla riva sinistra. L’8 maggio 1429 gli Inglesi assedianti furono sconfitti. Da qui si susseguirono una battaglia dopo l’altra e qui il coraggio soprannaturale della giovane ricorda la tempra dei condottieri dell’antico Testamento, garantiti dal Signore degli eserciti. Il 17 luglio dello stesso anno, Carlo VII venne incoronato a Reims alla sua presenza. Il successo la consacrò eroina inviata dal Cielo: la gente voleva toccare i suoi abiti, il suo cavallo, l’avvicinavano per conoscere il futuro, per richiedere grazie e guarigioni…
Jeanne d’Arc vinse il dominio straniero per volontà di Dio e riuscì ad infondere audacia e speranza nell’esercito regio; ma gli storici concordano anche nel riconoscerle il merito di aver allontanato con il nemico anche il Protestantesimo, che altrimenti si sarebbe innestato in Francia. Tuttavia le truppe inglesi la fecero prigioniera a Compiègne il 23 maggio 1430. Dopo due giorni dalla cattura, l’Università di Parigi chiese che l’Inquisizione la giudicasse come una strega. Questa soluzione piacque molto al duca di Bedford in quanto gli consentiva di screditare Carlo VII, che sarebbe apparso come colui che doveva la conquista del trono alle potenze infernali.
Il 9 gennaio 1431 il vescovo Pierre Cauchon (1371-1442) aprì il processo presso Rouen nel castello di Le Bouvreuil, fortezza di Richard Beauchamp (1382-1439) che, conte di Warwich e governatore della città dal 1427, aveva precise consegne dal sovrano Enrico VI (1421-1471). Fra gli assessori convocati, sei provenivano dall’Università di Parigi, inoltre erano presenti circa sessanta prelati ed avvocati ecclesiastici, fra cui il Vescovo di Norwich e, al di sopra del Collegio Giudicante, il Cardinale di Winchester, Henry Beaufort (ca. 1374-1447), prozio e cancelliere di Enrico VI.
L’iniquo processo durò dal 20 febbraio al 24 marzo 1431. L’imputata era colpevole d’idolatria, di scisma e d’apostasia. Durante il processo le era stato chiesto se era in grazia di Dio ed ella rispose: «Se non ci sono, voglia Dio mettermici, e se ci sono voglia Dio tenermici». Fu abbandonata al braccio secolare. Il 30 maggio 1431 Giovanna venne arsa viva sulla piazza del Vieux-Marché di Rouen. Morì contemplando una grande croce astile che frate Isembard de la Pierre aveva portato per lei.
Nel 1456 fu solennemente proclamata la sua riabilitazione; sarà beatificata da san Pio X (1835-1914) nel 1910 e canonizzata nel 1920 da Benedetto XV (1854-1922). Una sua statua è stata posta nella cattedrale di Winchester, dinnanzi alla tomba del Cardinale Beaufort, colui che ebbe un ruolo decisivo nel tragico e infausto processo.
La martire francese resta personalità unica e straordinaria e rivela tangibilmente la potente presenza di Dio nella storia; così come la sua limpida testimonianza dimostra gli errori che gli uomini di Chiesa possono commettere, ma come la verità della Sposa di Cristo emerga comunque e sempre.
Jeanne d’Arc tese all’Imitatio Christi attraverso la fede salda, la carità immensa, la volontà indefettibile, l’umiltà, la purezza, l’oblio di sé, accettando la sofferenza e la morte come sacrificio supremo per amore. Da bambina saliva al romitorio di Notre-Dame di Bermont e nel mese mariano offriva alla Vergine Santissima corone di fiori. Nel maggio del 1431 dona la palma del martirio a «Jesus-Maria»: come per la clarissa santa Colette di Corbie (1381-1447), che probabilmente aveva incontrato a Moulins nel 1430, anche per Jeannette, come era amabilmente chiamata, la Regina del Cielo e Cristo Re sono inscindibili.

Autore: Cristina Siccardi



Santa Giovanna d’Arco, celeberrima patriota francese, fu in un primo tempo arsa viva sul rogo e non molti anni dopo, nel 1456, riabilitata dalla Santa Sede. Il suo ruolo fu decisivo nel risollevare il morale francese nel corso della guerra dei Cento Anni e certamente avrebbe meritato una sorte migliore che essere data dai borgognoni in mano agli inglesi, rifiutata dai suoi stessi compatrioti ed ifine giustiziata sotto pressione inglese. Molto è stato scritto su questa santa quasi leggendaria, purtroppo però gli agiografi non haano fatto altro che rivestirla di loro proprie convinzioni. Fu indubbiamente una grande patriota francese, perita di morte violenta, ma non una “martire” in senso cristiano, cioè uccisa non in odio alla sua fede, quanto piuttosto per motivi politici. Indubbi furono il suo immenso coraggio e la sua grande determinazione.
Nata a Domrémy verso il 1412 da una famiglia contadina, imparò a cucire e filare, ma non a leggere e scrivere. Ebbe un’infanzia tutto sommato felice, anche se turbata dal pericolo dell’invasione lorenese e dalla Guerra dei Cento Anni. Giovanna aveva solamente tre anni quando Enrico V d’Inghilterra vinse la battaglia d’Azincourt e rivendicò il trono francese, sul quale sedeva allora Carlo VI il Folle. La Francia era inoltre indebolita dalle divisioni insorte fra la casa d’Orléans e quella di Borgogna, che comportarono l’assassinio del duca da parte del Delfino, il futuro Carlo VII. Queste vicende sugellarono il legame tra i borgognoni e gli inglesi ed i britannici portarono avanti, seppur fra non poche difficoltà economiche, la battaglia per conquistare il trono di Francia.
Nel frattempo Giovanna, allora quattordicenne, dal 1426 iniziò a udire delle misteriose voci celesti accompagnate da bagliori di luce e due anni dopo proprio in tal modo fu invitata a presentarsi volontariamente alle autorità militari allo scopo di “salvare la Francia”. Orléans era in stato d’assedio e le sorti della nazione parevano incerte. Nel 1429 Giovanna riconobbe a Chinon il Delfino, nonostante questi si fosse mascherato fra i suoi cortigiani, ed ottenne un colloquio segreto con lui, riuscendo a guadagnarne la stima. Venne tuttavia condotta a Poitiers per sottoporla all’esame da parte di teologi circa la sua fede ed i suoi costumi, ma poiché non fu scorta in lei alcuna ombra, al Delfino venne dunque consigliato di sfruttare al meglio i carismi della ragazza. Giovanna chiese che delle truppe fossero messe a sua disposizione per liberare Orléans e, vestitasi di un’armatura bianca, cavalcò alla loro testa con uno stendardo recante i nomi di Gesù e Maria.
In effetti la spedizione militare ebbe successo ed Orléans fu liberata: ciò dipese indubbiamente dall’intervento della “pulzella”, che seppe risollevare il morale francese e far percepire a tutti l’aiuto divino. L’entusiasmo popolare crebbe ancora in seguito ad altre vittorie, sino alla liberazione di Reims, ove Carlo VII poté essere incoronato con accanto Giovanna ed il suo stendardo. Forti opposizioni si levarono però ben presto dal mondo maschilista di corte, dell’esercito e della Chiesa, che guardavano a Giovanna con sospetto. Ben presto emersero gli effetti di questa avversione nei suoi confronti: rimasta ferita durante un fallito attacco a Parigi, il suo carisma fu ridimensionato e, quando mesi dopo ella liberò Compiègne, il ponte levatoio fu sollevato prima che Giovanna potesse mettersi in salvo. Catturata dai borgognoni, il re di Francia non fece alcuno sforzo per ottenere il suo rilascio e dunque il 21 novembre 1430 venne venduta agli inglesi.
Questi, desiderando che la giovane fosse condannata quale ribelle o eretica, la sottoposero ad un interrogatorio incrociato da un tribunale presieduto dal vescovo di Beauvais. Furono esaminati le “voci” misteriose che ella udiva, l’uso di abiti maschili, la sua fede e la sua volontà di sottomissione alla Chiesa. Non essendo particolarmente colta, Giovanna diede talvolta risposte non appropriate, ma seppe sempre difendersi da sola con coraggio e precisione. Il processo terminò con una “rozza e sleale ricapitolazione dei fatti”, in cui i giudici giudicarono diaboliche le rivelazioni da lei ricevute e l’università di Parigi la denunciò duramente. In parte, anche se non ci è chiaro in quale misura, convinsero Giovanna a ritrattare le sue posizioni, ma poi tornò ad indossare gli abiti maschili, divenuti ormai provocatori non traddandosi più di protezioni per la guerra, e confermò di aver esclusivamente agito per mandato di Dio stesso, che grazie alle “voci” le aveva affidato tale missione.
I giudici, accogliendo anche le istanze del vescovo, condannarono infine Giovanna d’Arco quale eretica recidiva ed il 30 maggio 1431, non ancora ventenne, venne arsa via sul rogo nella piazza del mercato di Rouen. Il suo comportamento fu esemplare sino alla fine: richiese che un domenicano tenesse elevata una croce ed alla morì atrocemente invocando il nome di Gesù. Le sue ceneri furono gettate nella Senna, onde evitare una venerazione popolare nei loro confronti. Un funzionario reale inglese ebbe a commentare circa l’accaduto: “Siamo perduti, abbiamo messo al rogo una santa”.
Una ventina di anni dopo, sua madre ed i due fratelli si appellarono alla Santa Sede affinchè il caso di Giovanna fosse riaperto. Papa Callisto III nel 1456 riabilitò l’eroina francese, annullando l’iniquo verdetto del vescovo francese. Ciò costituì una premessa essenziale ber giungere alla sua definitiva glorificazione terrena: nel 1910 San Pio X beatificò Giovanna d’Arco ed infine nel 1920 Benedetto XV la proclamò “santa”. Il suo culto fu particolarmente incentivato in Francia durante i momenti di particolare crisi in campo militare, sino ad essere proclamata patrona della nazione. Anche in Inghilterra la sua fugura è stata rivalutata ed una sua statua è stata posta nella cattedrale di Winchester, dinnanzi alla tomba del Cardinal Beaufort, colui che ebbe un ruolo decisivo nell’iniquo processo contro Giovanna.
Non manca chi ha voluto considerare questa intraprendente ragazza vissuta nel Basso Medioevo quale “prima protestante”, oppure in tempi più recenti una sorta di anticipatrice del femminismo. In realtà, Giovanna d’Arco non fu altro che una semplice ragazza di campagna, che seppe adempiere fedelmente la vocazione ricevuta tramite le rivelazioni attribuite a San Michele Arcangelo, Santa Margherita di Antiochia e Santa Caterina d’Alessandria. Seppur possa sembrare una vicenda incredibile, è impressionante la mole di documenti raccolti dalla Santa Sede grazie alla quale si rendette postuma giustizia alla giovane innocente vittima. La cosa più deprecabile sta nella presenza di ecclesiastici fra i colpevoli di questo errore giudiziario che nel XV secolo fu responsabile della sua morte.
In tempi recenti vasta è stata la produzione letteraria e cinematografica sulla vita di Santa Giovanna d’Arco. Solo nel 1996, nella soffitta di una casa colonica francese, è stata rinvenuta quella che verosimilmente pare essere stata l’armatura di Giovanna, con tanto di segni coincidenti con le ferite che la santa riportò in battaglia.

Autore: Fabio Arduino



Spunti bibliografici su Santa Giovanna d'Arco a cura di LibreriadelSanto.it
 

mercoledì 29 maggio 2013

Santo del giorno 29 maggio

Santi SISINNIO, MARTIRIO e ALESSANDRO, martiri



Antichissimo è nel Trentino il culto dei primi evangelizzatori e martiri: il diacono Sisinio, il lettore Martirio e suo fratello Alessandro, ostiario. La loro esistenza pare essere storicamente certa: troviamo infatti loro riferimenti nelle lettere di San Vigilio, vescovo di Trento, e negli scritti di Sant’Agostino e di San Massimo di Torino.
Sant’Ambrogio, celebre vescovo milanese, li aveva vivamente raccomandati a Vigilio, che al momento nella sua diocesi aveva scarsità di pastori. Questi incaricò i tre missionari di evangelizzare le Alpi Tirolesi ed in particolare la Val di Non. Naturalmente incontrarono non poche opposizioni alla loro opera, ma nonostante ciò riuscirono a guadagnare non poche persone alla fede in Cristo. Sisinnio in particolare promosse l’edificazione di una chiesa presso Methon (Medol).
E’ facile immaginare come i pagani del luogo fossero sempre più adirati per l’adesione di copiose folle alla dottrina cristiana, sottratte così all’adorazione del dio Saturno. Tentarono allora di convincere i neo-convertiti al cristianesimo a partecipare a cerimonie politeiste, riscontrando però un netto rifiuto. Sisinio Martirio ed Alessandro, ritenuti responsabili dell’imbonimento della popolazione locale, furono assaliti nella loro chiesa e malmenati violentemente. Il primo morì subito dopo l’aggressione, mentre i due fratelli vennero arsi insieme dinnanzi all’altare del dio Saturno, usando a tal fine i legni della loro stessa chiesa distrutta. Era il 29 maggio 397 e la tradizione popolare ritiene quale scena del martirio la chiesa di San Zeno in Val di Non.
Le loro ceneri furono traslate a Trento per volontà dei fedeli, mentre sul luogo del martirio venne eretta una chiesa in memoria. Nel 1997, nel 1600° anniversario della loro morte, le loro reliquie hanno visitato in pellegrinaggio tutte le parrocchie del Trentino. Oggi il quadro che li raffigura, abitualmente custodito nel museo Diocesano, è esposto nella piccola abside della cattedrale di Trento.

Autore: Fabio Arduino

Nel IV secolo d.C., attirati dalla popolarità e dal prestigio del vescovo Ambrogio, dalla Cappadocia, in Turchia,  si trasferirono a Milano tre uomini desiderosi di apprendere di più sulla fede cristiana, Sisinio, Martirio e Alessandro. Essi furono istruiti per l’appunto da sant’Ambrogio nella fede di Cristo Gesù e così presero ad amarla appassionatamente e a professarla con grande ardimento e risolutezza. San Vigilio, vescovo di Trento, conosciuti i tre giovani, espresse il desiderio di averli come suoi collaboratori missionari e Ambrogio, che li conosceva assai bene, accondiscese all’appello di Vigilio. Questi, quindi, ordinò Sisinio, il più grande dei tre, diacono, Martirio lettore ed Alessandro ostiario e li mandò ad evangelizzare la valle Anaunia (l’attuale Val di Non). In quel periodo storico, l’Anaunia, regione prevalentemente pagana,  godeva di grande prosperità economica, grazie alle molteplici attività produttive sviluppatesi intorno a un frequentatissimo tempio dedicato al dio Saturno. Proprio in quel luogo i tre incontrarono il martirio il 29 maggio dell’anno 397, durante una festa pagana, con un rito, detto degli Ambarvali, che i romani erano soliti celebrare verso la fine di maggio, in onore della dea Cerere, per propiziare la fertilità dei campi. Probabilmente, più che per la difesa della vigente religione, i tre martiri furono uccisi crudelmente a causa dell’avvertita minaccia degli interessi economici delle popolazioni del luogo. San Simpliciano, successore di sant’Ambrogio, chiese a San Vigilio di poter portare a Milano le preziose reliquie dei tre martiri e, avendole ottenute, le depose nella sua Basilica. Altre reliquie di Sisinio, Martirio e Alessandro vennero inviate a San Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, che udita la fama dei tre martiri, volle averne testimonianza per ravvivare la fede della sua gente.
Sul luogo del martirio, l’attuale Sanzeno,  fu edificata, successivamente,  una Basilica dedicata ai tre santi martiri. La costruzione attuale, retta da francescani insieme al vicino eremo di san Romedio, risale al XV secolo, con rifacimenti e arricchimenti successivi, ma si conservano vestigia della chiesa costruita precedentemente all’anno 1000 e un imponente campanile romanico.
Oltre che a Milano e a Costantinopoli, san Vigilio inviò altre reliquie al vescovo di Brescia, san Gaudenzio, come apprendiamo da un suo sermone. Anche Ravenna possiede reliquie dei Martiri Anauniensi, nell’altare della chiesa di Sant’Andrea e di questo ne parla san Venanzio Fortunato. Ne ritroviamo anche in San Giorgio a Verona, in san Martino ai Monti e santa Caterina de’ Funari a Roma, nell’abbazia benedettina di Saint Riquier, nella diocesi di Amiens, donate addirittura da Carlo Magno, insieme alle reliquie di san Vigilio e san Simpliciano.
Soltanto nel 1927, la Basilica milanese di san Simpliciano concesse di restituire alcune reliquie dei tre Martiri alla Basilica di Sanzeno, riunite in un antico e prezioso reliquiario.
Lo stesso nome di Sanzeno, è una corruzione semantica di “San Sisinio”, nome che la borgata assunse fin dal VII secolo d.C.
Raramente nella Chiesa dei primi secoli, la storia di un martirio e dello stile evangelizzatore dei primi missionari cristiani, sono stati così abbondantemente documentati come nel caso dei santi Martiri Sisinio, Martirio e Alessandro.


sabato 25 maggio 2013

Santo del giorno 25 maggio


Santa Maria Maddalena de' Pazzi Vergine


Nasce nel 1566 e appartiene alla casata de' Pazzi, potenti (e violenti) per generazioni a Firenze, e ancora autorevoli alla sua epoca. Battezzata con il nome di Caterina, a 16 anni entra nel monastero carmelitano di Santa Maria degli Angeli in Firenze e come novizia prende il nome di Maria Maddalena. Nel maggio 1584 soffre di una misteriosa malattia che le impedisce di stare coricata. Al momento di pronunciare i voti, devono portarla davanti all'altare nel suo letto. Da questo momento vivrà diverse estasi, che si succederanno per molti anni. Le descrivono cinque volumi di manoscritti, opera di consorelle che registravano gesti e parole sue in quelle ore. Più tardi le voci dall'alto le chiedono di promuovere la «rinnovazione della Chiesa» (iniziata dal Concilio di Trento con i suoi decreti), esortando e ammonendo le sue gerarchie. Scrive così a papa Sisto V, ai cardinali della curia; e tre lettere manda ad Alessandro de' Medici, arcivescovo di Firenze, predicendogli il suo breve pontificato. La mistica morirà nel 1607 dopo lunghe malattie. (Avvenire)
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall'egiziano; signora, dall'ebraico
Emblema: Giglio
Martirologio Romano: Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, vergine dell’Ordine delle Carmelitane, che a Firenze in Cristo condusse una vita nascosta di preghiera e di abnegazione, pregò ardentemente per la riforma della Chiesa e, arricchita da Dio di doni straordinari, fu per le consorelle insigne guida verso la perfezione.





Una santa da capogiro. Parte della sua vita si svolge come fuori dal mondo, in lunghe e ripetute estasi, con momenti e atti quasi “intraducibili” oggi: come lo scambio del suo cuore con quello di Gesù, le stigmate invisibili, i colloqui con la Santissima Trinità... Scene vertiginose di familiarità divino-umana; dopo le quali, però, lei ritorna tranquilla e laboriosa monaca, riassorbita nella quotidianità delle incombenze.
Appartiene alla casata de’ Pazzi, potenti (e violenti) per generazioni in Firenze, e ancora autorevoli alla sua epoca. Battezzata con il nome di Caterina, a 16 anni entra nel monastero carmelitano di Santa Maria degli Angeli in Firenze e come novizia prende il nome di Maria Maddalena.
Nel maggio 1584 soffre di una misteriosa malattia che le impedisce di stare coricata. Al momento di pronunciare i voti, devono portarla davanti all’altare nel suo letto, dove "dì e notte sta sempre a sedere". Ed ecco poi quelle estasi, che si succederanno per molti anni. Le descrivono cinque volumi di manoscritti, opera di consorelle che registravano gesti e parole sue in quelle ore. (Parole sorprendenti: nelle estasi, lei usava un linguaggio colto, “specialistico”, di gran lunga superiore al livello della sua istruzione). Questi resoconti, che lei legge e corregge, e che acuti teologi perlustrano in punto di dottrina, contengono – espresso in mille modi e visioni e voci – l’invito appassionato a ricambiare l’amore di Cristo per l’uomo, testimoniato dalla Passione.
Più tardi le voci dall’alto le chiedono di promuovere la “rinnovazione della Chiesa” (iniziata dal Concilio di Trento con i suoi decreti), esortando e ammonendo le sue gerarchie. Maria Maddalena esita, teme di ingannarsi. Preferirebbe offrire la vita per l’evangelizzazione, segue con gioia l’opera dei missionari in Giappone... Voci autorevoli la rassicurano, e allora lei scrive a papa Sisto V, ai cardinali della Curia; e tre lettere manda ad Alessandro de’ Medici, arcivescovo di Firenze, che poi incontra in monastero. "Questa figliola ha veramente parlato in persona dello Spirito Santo", dirà lui. Maria Maddalena gli annuncia pure che presto lo faranno Papa, ma che non durerà molto (e così gli ha predetto anche Filippo Neri). Infatti, Alessandro viene eletto il 10 maggio 1605 con il nome di Leone XI, e soltanto 26 giorni dopo è già morto.
Per suor Maria Maddalena finisce il tempo delle estasi e incomincia quello delle malattie. Del “nudo soffrire”, come lei dice, che durerà fino alla sua morte, già accompagnata da voci di miracoli, che porteranno nel 1611 l’apertura del processo canonico per la sua beatificazione, a pochi anni dalla morte avvenuta nel 1607. Papa Clemente IX, il 22 aprile del 1669, la canonizzerà. Le spoglie di santa Maria Maddalena de’ Pazzi ora riposano nell’omonimo monastero, a Firenze.  

Spunti bibliografici su Santa Maria Maddalena de' Pazzi a cura di LibreriadelSanto.it
 

venerdì 24 maggio 2013

Santo del giorno 24 maggio


 
Sant' Amalia Martire di Tavio


A dicembre, il Calendario è folto di bei nomi femminili: Bibiana Barbara, Valeria, Eulalia, Lucia, Adelaide, Eugenia, Anastasia, e così via. Nomi belli nel suono e nel ricordo della santità che evocano.

Non c'è però, né a dicembre né in tutto il resto dell'anno, una Santa con il nome di Amalia: simile nel suono, ma diverso per origine e significato da quello di Amelia, derivante forse dal nome latino di Emiliana.
Eppure, in molti calendari, alla data di oggi viene indicato il nome - di origine germanica - di Sant'Amalia. Vediamo subito perché. £ festeggiato oggi un gruppo di Martiri caduti nella persecuzione di Decio, sulla metà del III secolo, e messi a morte ad Alessandria, in Egitto.

Si tratta di due uomini, Epìmaco ed Alessandro, e di tre donne, Mercuria, Dionisia e Ammonaria. Proprio quest'ultimo nome, di insolita forma, è stato poi scambiato con quello più usuale di Amalia.

Vale la pena di notare come, invece, i nomi originari delle tre donne di Alessandria: Mercuria, Dionisia e Ammonaria - corrispondessero a quelli di altrettante divinità pagane: Mercurio, Dioniso e l'egiziano Ammone. Per coincidenza, o per voluta simbologia, le tre donne cristiane avevano nomi pagani, quasi a mascherare una realtà spirituale del tutto diversa.

Sul loro conto, però, oltre ai nomi, si conosce ben poco. il Martirologio Romano dice delle tre: " La prima di esse, dopo aver superato inaudite specie di tormenti, colpita col gladio, finì beatamente la vita. Le altre poi, vergognandosi il giudice di essere superato dalle donne e temendo che, se avesse usato contro di loro gli stessi tormenti, sarebbe stato vinto dalla loro incrollabile costanza, furono decapitate subito ".

Ammonaria, dunque, avrebbe sopportato le torture con tanta fermezza da far vacillare lo zelo dello stesso giudice. Un accenno a una vera e propria crisi di coscienza da parte di un funzionario imperiale non è molto frequente nelle storie dei Martiri. Basterebbe, da solo, a costituire titolo di alto elogio per Sant'Ammonaria - cioè per la nostra Sant'Arnalia.

Ma il breve vacillamento della coscienza del giudice fu subito superato, nella maniera più spiccia e definitiva. Per non correre rischi, egli si sbarazzò subito delle altre due donne cristiane, facendole decapitare.

E’ la risoluzione della viltà, quando la coscienza fa sentire la sua scomoda voce, e non si ha il coraggio dì darle retta. Quando il compromesso non basta più a celare la verità, e gli accomodamenti morali mostrano le corde. Meglio sopprimere la causa del turbamento, come fece il giudice di Alessandria, che affrontare l'intima lotta perché prevalga la verità.
 

Santo del giorno 24 maggio

Beata Vergine Maria Ausiliatrice


“Auxilium Christianorum”; ‘Aiuto dei Cristiani’, è il bel titolo che è stato dato alla Vergine Maria in ogni tempo e così viene invocata anche nelle litanie a Lei dedicate dette anche Lauretane perché recitate inizialmente a Loreto.
Sulle virtù, la vita, la predestinazione, la maternità, la mediazione, l’intercessione, la verginità, l’immacolato concepimento, i dolori sofferti, l’assunzione di Maria, sono stati scritti migliaia di volumi, tenuti vari Concili, proclamati dogmi di fede, al punto che è sorta un’autentica scienza teologica: la Mariologia.
E sempre è stata ribadita la presenza mediatrice e soccorritrice della Madonna per chi la invoca, a lei fummo affidati come figli da Gesù sulla Croce e a noi umanità è stata indicata come madre, nella persona di Giovanni apostolo, anch’egli ai piedi della Croce.
Ma la grande occasione dell’utilizzo ufficiale del titolo “Auxilium Christianorum” si ebbe con l’invocazione del grande papa mariano e domenicano san Pio V (1566-1572), che le affidò le armate ed i destini dell’Occidente e della Cristianità, minacciati da secoli dai turchi arrivati fino a Vienna, e che nella grande battaglia navale di Lepanto (1571) affrontarono e vinsero la flotta musulmana.
Il papa istituì per questa gloriosa e definitiva vittoria, la festa del S. Rosario, ma la riconoscente invocazione alla celeste Protettrice come “Auxilium Christianorum”, non sembra doversi attribuire direttamente al papa, come venne poi detto, ma ai reduci vittoriosi che ritornando dalla battaglia, passarono per Loreto a ringraziare la Madonna; lo stendardo della flotta invece, fu inviato nella chiesa dedicata a Maria a Gaeta dove è ancora conservato.
Il grido di gioia del popolo cristiano si perpetuò in questa invocazione; il Senato veneziano fece scrivere sotto il grande quadro commemorativo della battaglia di Lepanto, nel Palazzo Ducale: “Né potenza, né armi, né condottieri ci hanno condotto alla vittoria, ma Maria del Rosario” e così a fianco agli antichi titoli di ‘Consolatrix afflictorum’ (Consolatrice degli afflitti) e ‘Refugium peccatorum’ (Rifugio dei peccatori), si aggiunse per il popolo e per la Chiesa ‘Auxilium Christianorum (Aiuto dei cristiani).
Il culto pur continuando nei secoli successivi, ebbe degli alti e bassi, finché nell’Ottocento due grandi figure della santità cattolica, per strade diverse, ravvivarono la devozione per la Madonna del Rosario con il beato Bartolo Longo a Pompei e per la Madonna Ausiliatrice con s. Giovanni Bosco a Torino.
Il grande educatore ed innovatore torinese, pose la sua opera di sacerdote e fondatore sin dall’inizio, sotto la protezione e l’aiuto di Maria Ausiliatrice, a cui si rivolgeva per ogni necessità, specie quando le cose andavano per le lunghe e s’ingarbugliavano; a Lei diceva: "E allora incominciamo a fare qualcosa?". S. Giovanni Bosco, nato il 16 agosto 1815 presso Castelnuovo d’Asti e ordinato sacerdote nel 1841, fu il più grande devoto e propagatore del culto a Maria Ausiliatrice, la cui festa era stata istituita sotto questo titolo e posta al 24 maggio, qualche decennio prima, dal papa Pio VII il 24 maggio 1815, in ringraziamento a Maria per la sua liberazione dalla ormai quinquennale prigionia napoleonica.
Il grande sacerdote, apostolo della gioventù, fece erigere in soli tre anni nel 1868, la basilica di Maria Ausiliatrice nella cittadella salesiana di Valdocco - Torino; sotto la Sua materna protezione pose gli Istituti religiosi da lui fondati e ormai sparsi in tutto il mondo: la Congregazione di S. Francesco di Sales, sacerdoti chiamati normalmente ‘Salesiani di don Bosco’; le ‘Figlie di Maria Ausiliatrice’ suore fondate con la collaborazione di s. Maria Domenica Mazzarello e per ultimi i ‘Cooperatori Salesiani’ per laici e sacerdoti che intendono vivere lo spirito di ‘Don Bosco’, come è generalmente chiamato.
Le Congregazioni sono così numerose, che si vede con gratitudine la benevola protezione di Maria Ausiliatrice nella diffusione di tante opere assistenziali ed a favore della gioventù.
Ormai la Madonna Ausiliatrice è divenuta la ‘Madonna di Don Bosco’ essa è inscindibile dalla grande Famiglia Salesiana, che ha dato alla Chiesa una schiera di santi, beati, venerabili e servi di Dio; tutti figli che si sono affidati all’aiuto della più dolce e potente delle madri.
Interi Continenti e Nazioni hanno Maria Ausiliatrice come celeste Patrona: l’Australia cattolica dal 1844, la Cina dal 1924, l’Argentina dal 1949, la Polonia fin dai primi decenni del 1800, diffusissima e antica è la devozione nei Paesi dell’Est Europeo.
Nella bella basilica torinese a Lei intitolata, dove il suo devoto figlio s. Giovanni Bosco e altre figure sante salesiane sono tumulate, vi è il bellissimo e maestoso quadro, fatto eseguire dallo stesso fondatore, che rappresenta la Madonna Ausiliatrice che con lo scettro del comando e con il Bambino in braccio, è circondata dagli Apostoli ed Evangelisti ed è sospesa su una nuvola, sullo sfondo a terra, il Santuario e l’Oratorio come appariva nel 1868, anno dell’esecuzione dell’opera del pittore Tommaso Lorenzone.
Il significato dell’intero quadro è chiarissimo; come Maria era presente insieme agli apostoli a Gerusalemme durante la Pentecoste, quindi all’inizio dell’attività della Chiesa, così ancora Lei sta a protezione e guida della Chiesa nei secoli, gli apostoli rappresentano il papa ed i vescovi


giovedì 23 maggio 2013

Santo del giorno 23 maggio


San Giovanni Battista de' Rossi Sacerdote



Nacque nel 1698 a Voltaggio, in provincia di Genova ma a 13 anni, per motivi di studio, si trasferì a Roma nella casa di uno zio sacerdote, canonico a Santa Maria in Cosmedin. A Roma frequentò il liceo presso i gesuiti del Collegio Romano avviandosi agli ordini sacri. In quel periodo fu colto dai primi attacchi di epilessia, malattia che lo avrebbe fatto soffrire per tutta la vita. Venne ordinato sacerdote l'8 marzo 1721 e da allora diede ancora più slancio al suo apostolato, avviato in precedenza, tra gli studenti, i poveri e gli emarginati. Sulla scia di quell'impegno nacque la Pia Unione dei sacerdoti secolari di Santa Galla dal nome di un ospizio maschile da lui diretto. Giovanni ne volle uno anche per donne e lo dedicò a Luigi Gonzaga santo cui era devotissimo. Eletto canonico di Santa Maria in Cosmedin, venne dispensato dall'obbligo del coro per potersi dedicare con maggiore libertà ai suoi impegni apostolici. Negli ultimi mesi di vita l'epilessia si aggravò costringendolo a un vero e proprio calvario. Morì il 23 maggio 1764. Fu canonizzato da Leone XIII l'8 dicembre 1881. (Avvenire)
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Roma, san Giovanni Battista de Rossi, sacerdote, che accolse i poveri e i più emarginati, insegnando loro la sacra dottrina.



Non è nato per essere capo: a lui basta ubbidire e lavorare sodo, sia da laico come poi da sacerdote. Giovanni Battista de’ Rossi è uno dei pochi sopravvissuti di una famiglia segnata da troppi lutti: il papà muore prematuramente, e la maggior parte dei fratellini se ne va prima di raggiungere l’adolescenza. E’ nato nel 1698 a Voltaggio, nell’alessandrino, ma frequenta il genovese per le scuole che una famiglia benestante gli fa frequentare, perché chi lo avvicina resta incantato dalla sua intelligenza ma soprattutto dalla sua pietà e dalla dolcezza del suo carattere. Alla morte di papà alcuni sacerdoti, parenti o amici di famiglia, lo accolgono per carità e gli fanno proseguire gli studi e, di trasferimento in trasferimento, togliendo così alla famiglia il peso di una bocca in più da sfamare. arriva fino a Roma. Dove, com’è naturale, si prepara al sacerdozio, assecondando una vocazione che nutre fin da bambino, aiutato anche da un’intelligenza non comune che gli permette di completare in anticipo gli studi per cui è necessario ottenere dal papa la dispensa per l’ordinazione sacerdotale. Non aspetta però il sacerdozio per buttarsi nell’apostolato: gli oratori romani e i gruppi studenteschi lo vedono protagonista attivo: mai con ruolo dirigenziale, solo e sempre come semplice gregario. E sono proprio i giovani a fargli corona alla prima messa, che celebra all’altare di San Luigi, nella chiesa di Sant’Ignazio, a marzo del 1721. Ormai la sua strada è tracciata: precedenza assoluta ai giovani, alla catechesi, alle fasce più deboli della Roma del suo tempo, ai malati che visita a domicilio per portare conforto cristiano e sostegno materiale. Un occhio di riguardo lo vuole avere anche per i confratelli sacerdoti, per i quali fonda la Pia Unione dei Sacerdoti Secolari: sostegno, arricchimento spirituale, aggiornamento culturale per un clero che a metà Settecento non brillava per cultura e preparazione teologica. Il resto della sua vita lo trascorre in confessionale: chiede ed ottiene la facoltà di confessare solo a 40 anni, ma da quel momento sarà questo il suo apostolato specifico, che porta i romani ad assediarlo nel confessionale per lunghissime ore ogni giorno ed a renderlo ricercatissimo per la direzione spirituale. C’è chi si domanda come faccia a reggere ad un così intenso ritmo di lavoro apostolico per le strade del quartiere del Campidoglio, sui pulpiti, nei confessionali, nei tuguri della povera gente, al letto degli ammalati. Tanto più che lui stesso non è la salute fatta persona, soggetto com’è a frequenti crisi epilettiche e tormentato da una fastidiosa malattia agli occhi: la sua vita vorticosa e la sua inarrestabile carità rappresentano il trionfo della volontà sulla fragilità fisica, dell’impegno apostolico sui limiti imposti dalla malattia. Nato da famiglia umile e povera, tale sceglie di restare fino alla morte, che sopraggiunge il 23 maggio 1764, ad appena 66 anni. Beatificato da Pio IX nel 1860, sarà proclamato santo da Leone XIII nel 1881.
 

mercoledì 22 maggio 2013

santo del giorno 22 maggio


Santa Rita da Cascia Vedova e religiosa


La tradizione ci racconta che, portata alla vita religiosa, fu data in sposa ad un uomo brutale e violento che, convertito da lei, venne in seguito ucciso per una vendetta. I due figli giurarono di vendicarlo e Rita, non riuscendo a dissuaderli, pregò Dio farli piuttosto morire. Quando ciò si verificò, Rita si ritirò nel locale monastero delle Agostiniane di Santa Maria Maddalena. Qui condusse una santa vita con una particolare spiritualità in cui veniva privilegiata la Passione di Cristo. Durante un'estasi ricevette una speciale stigmata sulla fronte, che le rimase fino alla morte. La sua esistenza di moglie di madre cristiana, segnata dal dolore e dalle miserie umane, è ancora oggi un esempio.
Patronato: Donne maritate infelicemente, Casi disperati
Etimologia: Rita = accorc. di Margherita
Martirologio Romano: Santa Rita, religiosa, che, sposata con un uomo violento, sopportò con pazienza i suoi maltrattamenti, riconciliandolo infine con Dio; in seguito, rimasta priva del marito e dei figli, entrò nel monastero dell’Ordine di Sant’Agostino a Cascia in Umbria, offrendo a tutti un sublime esempio di pazienza e di compunzione.





Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.
E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.
Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.
E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.
A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc.
Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 (o 1457, come viene spesso ritenuto) Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.


Autore: Antonio Borrelli



Spunti bibliografici su Santa Rita Da Cascia a cura di LibreriadelSanto.it
 

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