«Che cosa può venire di buono da Pontecurone?». Con questa frase,
tutt'altro che incoraggiante, un frate francescano del convento di
Voghera accoglieva il piccolo Luigi Orione che aveva chiesto di entrarvi
per farsi frate. Pontecurone, dove egli nacque il 23 giugno 1872, era
un oscuro paese della provincia alessandrina. Il padre faceva lo
stradino e politicamente stava dalla parte di chi, pur di cambiare le
cose che andavano davvero male, era disposto anche ad andare per le
spicce. Sua madre, invece, era tutta casa e chiesa.
D'estate, al tempo della mietitura, la mamma andava a spigolare
trascinandosi dietro il piccolo Luigi. «Il pane per i poveri è sacro
gli diceva — e neppure una briciola deve andare perduta». E si inchinava
lei stessa a raccoglierla. Quel gesto, di raccogliere e portare alla
bocca ogni pezzo di pane, divenne anche per Luigi un'abitudine. Che un
giorno gli costò cara. I compagni di collegio, avendo notato il suo
innocente vezzo, buttavano pezzi di pane che poi con sottile perfidia si
affrettavano a calpestare. E quando Luigi, obbedendo al suo istinto, si
chinava a raccogliere le briciole, era un coro di risate. Per tutta la
vita, in verità, non farà che curvarsi per sollevare gli emarginati, i
disgraziati abbandonati a se stessi da una società gretta e meschina.
A Voghera Luigi non stette per molto: una broncopolmonite lo costrinse a
lasciare il convento. Il papà lo prese allora con sé a lavorare lungo
le strade: un buon noviziato, che gli fece conoscere il mondo operaio,
un mondo difficile, di gente sfruttata e arrabbiata, un po'
anticlericale ma non lontano da Cristo. Poi Luigi conobbe don Bosco che
lo prese con sé a 'Torino e lo coinvolse nelle sue iniziative a favore
dei ragazzini che la durezza della vita aveva ridotto a vivere nei
marciapiedi delle città. Ma alla vigilia del noviziato, quando don Bosco
pensava ormai di avere un confratello in più, inspiegabilmente Luigi
Orione lasciava Torino c chiedeva di essere accolto nel seminario
diocesano di Tortona.
In seminario Orione non fu mai un chierico come gli altri. L: ansia per i
ragazzi male in arnese, che don Bosco gli aveva comunicato, gli fece
fare cose che di solito i chierici non fanno. Un'estate, quando i
chierici tornavano in famiglie, Luigi chiese di restare. E poiché il
seminario chiudeva, il rettore gli mise a disposizione una stanzetta, un
bugigattolo nel soffitto della cattedrale, che al caldo estivo era
tutt'altro che un luogo di delizie.
Un giorno la porta della sua stanzetta si aprì per accogliere un
ragazzino cacciato dalla scuola di catechismo perché turbolento. Qualche
giorno dopo una frotta di marmocchi invadeva la soffitta del duomo,
contenti di passare qualche ora con quel chierico un po' matto che si
faceva in quattro per loro. Un po' meno contenti furono i piissimi
canonici, disturbati nel loro devoto salmodiare dai rumori «sospetti»
provenienti dalla soffitta.
Disturbare la preghiera dei canonici fu considerato quasi un delitto e
Orione dovette sloggiare, accompagnato dalla fama di soggetto poco
raccomandabile. Ma non tutti furono d'accordo con quella sbrigativa
definizione, non il vescovo, monsignor Igino Bandi, che, apprezzando
l'iniziativa del chierico Orione, gli mise a disposizione il proprio
giardino, presto trasformato in oratorio. Ma anche lì la storia durò
poco. Qualcuno ravvisò nel gruppetto di ragazzini un covo di papalini
antipatriottici e sovversivi. E si diede da fare perché il patronato
venisse chiuso.
E l'oratorio chiuse i battenti. Ma Orione si inventò qualche altra cosa:
aprì un piccolo collegio per seminaristi poveri, con la benedizione del
vescovo. L'iniziativa per un po' funzionò, ma poi alcuni
malintenzionati misero in giro la voce che Orione fosse indebitato fino
al collo. 11 vescovo fu costretto a prendere delle precauzioni per non
trovarsi nei guai. E Orione si trovò da solo. Ma non mollò l'impresa.
«Aiutati ché il ciel t'aiuta», dice la saggezza popolare e lui, dandosi
da fare, trovò i soldi per pagare l'affitto del locale che ospitava il
collegio. Per mettere tutti a tacere. La Piccola opera della divina
provvidenza, una delle sue iniziative più incisive, nascerà da quel
collegio, della provvidenza, è il caso di dire. Aveva allora solo
ventuno anni. Ed era ancora chierico. Sacerdote lo divenne due anni
dopo, nel 1895.
Ancora chierico ne aveva combinata un'altra delle sue. Il patriarca di
Venezia — Giuseppe Sarto, il futuro Pio X — aveva invitato nella città
della Serenissima, per dirigere il coro della basilica, il chierico
Lorenzo Perosi, compagno di corso di Orione e promettente musicista.
Notizie che giungevano dalla città di san Marco avevano inquietato il
severissimo papà Perosi, il quale un giorno andò a confidare a Orione le
sue angustie. Secondo lui, il cardinale Sarto stava «viziando» suo
figlio: lo invitava a pranzo, giocava con lui ai tarocchi, gli offriva
sigari... Orione, contagiato dal sacro furore di papà Perosi, prese
carta e penna e inviò una lettera di rimproveri al cardinale. Se ne
pentì subito, ma ormai la frittata era fatta. Il patriarca Sarto, letta
la lettera dell'audace chierico, si vendicò, ma a suo modo: inviandogli
un pezzo di stoffa per la talare che avrebbe indossato il giorno della
prima messa. Quando, anni dopo, don Orione sarà ricevuto in udienza, Pio
X, mostrandogli la lettera che aveva posto nel breviario come
segnalibro, gli dirà: «Certi rimproveri fanno bene ai patriarchi».
Intanto la Piccola casa della divina provvidenza prendeva piede. A don
Orione si era aggregato un altro sacerdote, don Sterpi, suo futuro
successore, e con lui tanti giovani che volevano essere della compagnia.
E l'iniziativa cresceva. Don Orione era un vulcano. Una ne faceva e
cento ne pensava. La Casa della provvidenza divenne più di una e a esse
si affiancarono presto asili, scuole professionali, centri giovanili,
ospedali... In Italia e fuori Italia, in Brasile e Argentina. Troppo
successo, per non suscitare nei soliti invidiosi qualche sospetto: dove
trovava i soldi quel pasticcione di prete? II suo castello era solido o
poggiava su un mare di debiti? Perché non era mai in casa ma sempre in
giro per il mondo?...
Sospetti e altro ancora finirono raccolti in un bel dossier che
monsignor Bandi dovette leggersi. E non ne fu contento. Tanto che,
chiamato don Orione, gli disse con tono che non ammetteva repliche: «La
Piccola opera della divina provvidenza deve essere chiusa».
Il monsignore si aspettava chissà quali reazioni. Don Orione rispose
solo: «Obbedisco». Sollecitato poi dal vescovo, sconcertato dalla secca
risposta, a esplicitare la sua opinione, egli si mise in ginocchio
dicendo: «Eccellenza, domani lei non può celebrare la messa perché ha
compiuto un'ingiustizia troppo grossa».
Tre mesi dopo l'Opera di don Orione otteneva dal vescovo l'approvazione
ufficiale, insieme alla raccomandazione di dare basi solide
all'istituzione, perché non finisse travolta dai debiti. Don Orione
promise. Ma intanto chiedeva di poter aprire una 'uova casa a Borgonovo,
nel piacentino, per ospitarvi i più poreri tra i poveri. E il vescovo
glielo concesse perché, in fondo, aveva fiducia in quel suo prete un po'
pasticcione, è vero, ma mimato da una grande passione che aveva
nell'amore di Dio e iel prossimo la sua origine.
Nel 1908 Messina veniva rasa al suolo dal terremoto. Don Orione fu tra i
primi a portare soccorso in nome del papa e della carità cristiana. E
mentre gli anticlericali lo accusavano di essere una spia del Vaticano e
chiedevano che fossero incamerati tutti i beni ecclesiastici per
soccorrere i terremotati, don Orione scriveva mirabili pagine di Vangelo
vivo, «incamerando» duemila orfanelli nei suoi collegi. Quando Pio X lo
nominò vicario generale della diocesi disastrata, un canonico gli offrì
un materasso e una stanza scampata alla devastazione. Ma lui cedette
tutto a una famiglia senza casa e andò a dormire in un vagone
ferroviario.
Erano tempi duri, di miseria, di fame e di lotte. Gli operai e i poveri
lo ebbero sempre dalla loro parte. Tanto che i socialisti di Alessandria
lo chiamavano «il nostro prete». In una predica incitò
provocatoriamente i poveri a rubare: «Non nella terra dei poveri —
specificò —, ma in quella dei ricchi. Andate nella proprietà di Pedenovi
(suo amico, che sapeva presente in chiesa). Però non portategli via la
carretta ma solo il canestro».
Anche il terribile terremoto della Marsica (1915) lo vide prodigarsi in
prima persona e con gesti di carità al limite della legalità. Per
portare in salvo dei bambini, ad esempio, requisì l'automobile del re,
il quale, presente alla scena, non osò opporsi. Tra i bambini che un
giorno accompagnò alla stazione per portarli in un suo collegio in
Liguria, c'era anche un ragazzetto che nel terremoto aveva perso tutta
la sua famiglia, Ignazio Silone. Intervistato in seguito su quali
personaggi l'avessero più colpito, il celebre scrittore disse: «Don
Orione e Trotskij: il primo non era il cristiano della domenica mattina;
il secondo non era il rivoluzionario del sabato sera».
Mentre imperversava la prima grande guerra con le sue drammatiche
vicende, don Orione diede le ultime rifiniture alla Piccola opera, che
articolò in cinque rami: i piccoli figli della divina provvidenza, le
piccole suore missionarie della carità, gli eremiti di sant'Alberto, le
figlie della Madonna della Guardia o sacramentane e i fratelli laici
coadiutori. Le sacramentine e gli eremiti, due comunità contemplative,
che accolgono anche i ciechi di solito rifiutati dagli istituti
religiosi perché non idonei, sono il fiore all'occhiello di don Orione, e
il motore di tutte le sue altre attività. E nell'eremo di Sant'Alberto
don Orione si rifugiava per disintossicarsi dai veleni delle critiche
che da più parti gli venivano mosse: cosa normale per chi realizza
qualcosa di importante. Ebbe però anche attestazioni di stima da
importanti personaggi della chiesa, come monsignor Roncalli (Giovanni
XXIII). 11 cardinale Pacelli (futuro Pio XII), mentre si recava in nave
al Congresso eucaristico di Buenos Aires come legato pontificio, a chi
gli chiedeva la benedizione rispondeva, indicando don Orione, compagno
di viaggio: «Andate da lui: è un santo».
Ai primi di marzo del 1940 don Orione si ammalò gravemente. Aveva
chiesto di essere portato a Borgonovo (Piacenza) in quella che
considerava la più povera delle sue case. Invece lo trasferirono nella
sede di Sanremo, sperando che il buon clima fosse favorevole alla sua
salute. Invece il 12 marzo moriva. Scrivendo un giorno all'amico padre
Stefano Ignudi, un francescano conventuale di grande cultura, don Orione
aveva chiesto: «Ci sarà il ballo in Paradiso?». Non era una
irriverenza, ma un suo modo per sottolineare che la chiesa deve essere
il luogo della festa e non dei funerali, della Pasqua e non solo del
venerdì santo; una chiesa dell'osare e non solo dell'attendere in
pantofole; con un briciolo di pazzia...
Papa Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato il 26 ottobre 1980 e proclamato Santo dallo stesso Papa il 16 maggio 2004.
Egli fu sacerdote e fondatore, non perdetevi la diretta di questa sera
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